Sopra le righe. Pare che oggi per farsi ascoltare sia necessario l’eccesso mediatico, come se il gridare garantisca un miglior ascolto di quel che si avrebbe semplicemente parlando. La questione non riguarda pochi casi isolati, purtroppo, ed è come se tutti – dalle aziende alle testate giornalistiche – si fossero adeguati allo scontro. Che imperversa nei social network, luoghi in cui l’urlare e il sopraffare hanno surclassato il ragionamento e la capacità di confronto.
E allora, dài: facciamoci del male: tutti a sparare titoli roboanti – il più delle volte “sovradimensionati” rispetto a quel che si ha da dire, siano essi articoli o post – e tutti impegnati a coniare e rilanciare appellativi che altrimenti dovrebbero apparire imbarazzanti per chi se ne appropria, ma che sono regolarmente usati. E abusati.
Capita così, è evidente, che in tempi in cui il concetto di “benessere animale” viene rilanciato da cani e porci, oltre che per i cani e per i porci – e galline e vacche, ovviamente – ci si ritrovi a leggere di “etica” riferita ad animali da reddito costretti a passare una vita reclusi. Una vita fatta di privazioni (dell’erba, del muoversi, del sole…) e di costrizioni (sempre al chiuso, sempre nutrite a mangimi…) in stalle a cui qualcuno ora s’azzarda ad affiancare il concetto di “etica”. “Stalle etiche”? È mai possibile un’etica nella reclusione?
La notizia, rilanciata giorni fa dal sito web “Baraonda News” (un nome, un programma, ndr) si riferisce a tesi che circolano da qualche tempo nel nostro settore e che sono legate a progetti di puro lucro. Tesi propagate da aziende intensiviste e prodotti e servizi che da queste vengono vendute a chi voglia acquistarli. Aziende che altro non fanno che seguire le tendenze e assemblare proposte a pacchetto (sempre con l’eccesso di enfasi di cui sopra, ndr) ad un mercato in cui – è evidente – operano aziende non in grado di orientarsi in modo indipendente.
La stalla etica non esiste
Ma cos’è la “stalla etica”? Stalla etica non è nulla, in sostanza; nulla che già non esista. Nella fattispecie si tratta di una soluzione accessibile a chiunque allevi bovine e abbia in mente di razionalizzare l’ambiente in cui le vacche passano quantomeno le notti e i periodi molto caldi e molto freddi, migliorando sia la gestione della lettiera che quella delle deiezioni dei propri animali. Una soluzione che ha un nome anglosassone – “compost barn” – e un Paese di origine: Israele.
Quello che i principali player del settore zootecnico propongono oggi come “etico” altro non è che una “inversione a U” su quanto da loro stessi predicato sinora. E sugli errori in cui essi stessi hanno indotto gli allevatori con la stabulazione a cuccette. Dopo anni e anni si è capito, finalmente, che proprio nel sistema delle cuccette, largamente diffuso negli allevamenti da latte, si sono innescate le maggiori criticità degli ultimi anni: dalle zoppìe alle mastiti, dalle dermatiti all’aumentata ipofertilità.
Da alcuni anni anche in Italia chi voglia approcciarsi ad una zootecnia che cerchi di ridurre quei problemi guarda alla soluzione del “compost barn” con crescente interesse, per vari e non secondari motivi. Innanzitutto perché con questa soluzione – basata sulla fermentazione aerobica del substrato – si riesce finalmente a garantire alle vacche una stabulazione libera con un’ampia zona di riposo “a lettiera permanente”. Secondo poi, perché con la temperatura raggiunta (60°C) dal substrato con la fermentazione aerobica una buona parte delle insidie della stalla moderna (zoppìe, mastiti, etc., legati alla proliferazione di batteri anaerobi) vengono a ridursi notevolmente.
La vacca è un erbivoro e come tale va trattata
Detto questo, e rimandando per una più completa trattazione del “compost barn” ad una non improbabile ripresa delle pubblicazioni della nostra Rubrica Tecnica, quel che ci preme affermare, concludendo, è che non esiste un’etica dell’allevamento che possa eludere i fondamenti fisiologici dell’animale: un erbivoro va nutrito con l’erba, possibilmente pascolata (l’animale deve poter scegliere cosa mangiare), non con i mangimi. I rumini sono fatti per digerire erba, non altro; se non si rispetta la natura dell’animale, quindi, parlare di etica è pura e disonesta speculazione alle spalle di un pubblico ignorante e credulone.
14 maggio 2018