Non esiste quotidiano, oramai – pensiamo ai più blasonati nazionali – che non abbia la sua rubrica gastronomica, in cui il cibo è praticamente trattato da ogni possibile prospettiva: dai redazionali che raccontano di aziende (più o meno) meritevoli di menzione alle recensioni di prodotti, spesso avulse da interessi personali, dagli itinerari enogastronomici ai viaggi gourmet, sulle rotte dei cibi più straordinari. Per non parlare poi delle ricette, a volte interessanti, in grado di andare incontro un po’ a tutti i gusti; ricette che nei periodi più particolari dell’anno – dal Carnevale alla Befana – offrono spunti talvolta utili e qualche sfiziosità, tenendo conto spesso della stagionalità dei prodotti.
Una stagionalità che, di tanto in tanto – come accade nell’articolo di cui oggi vi parliamo – viene dimenticata per qualche distrazione o ignoranza, oppure per superficialità o anche – si vocifera – per quelle pressioni esterne che mai si vedono, ma di cui qualcosa trapela. Pressioni che, passando dalle stanze dei bottoni, raggiungono sottotraccia le spettabili redazioni.
A mettersi in luce per molti dei suddetti limiti (di certo per superficialità; forse per un po’ d’ignoranza in materia casearia), stavolta è stata la redazione delLa Repubblica, che lunedì scorso, 5 novembre, ha pubblicato un pezzo intitolato “Il giro d’Italia dei formaggi (di capra): bombe di gusto da imparare a conoscere”. A chi sappia di prodotti caprini non servirebbe altro che considerare la data di uscita per capire il marchiano scivolone occorso al prestigioso quotidiano nel pubblicare quell’articolo, già che in questo periodo dell’anno le capre (quelle “serie”, negli allevamenti “seri”) vengono messe in asciutta, per riprendere a produrre latte, con l’arrivo dei capretti, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.
A che pro quindi pubblicare un articolo del genere, su un giornale letto da milioni di persone? Perché parlare di caprini a così tanta gente se i buoni caprini – quelli delle piccole produzioni locali, di cui il pezzo racconta – non sono disponibili sul mercato? Di ipotesi se ne potrebbero fare tante: è accaduto per distrazione, quindi, per incompetenza o anche e forse soprattutto – chi può escluderlo? – per qualche recondito interesse?
Scorrendo l’articolo, certo, qualche ipotesi maliziosa la si potrebbe anche fare, già che oltre i marchiani errori (le “trentasette specie caprine”, che sarebbero razze, e i “pastori-caseari”, che sarebbero casari), il pezzo si prodiga nel decantare i pregi di questa tipologia produttiva – raccontando di un “latte povero di grassi”, “ricco di calcio, fosforo, potassio, magnesio, vitamina B2, B3, B5 e D, taurina” – e riferendo del positivo trend di vendita (“una crescita del 162%”, “passando da 11.840 a oltre 31.000 tonnellate”) evidenziato – sottolinea il testo – da “elaborazioni Assolatte”.
I più sospettosi, ne siamo certi, adesso penseranno (e noi non possiamo escluderlo) che l’articolo – in apparenza uscito “fuori stagione” – potrebbe essere stato pubblicato per indurre i consumatori ad interessarsi a quei prodotti, proprio ora che il mercato offre unicamente la loro versione industriale. E sarebbe un “peccato”, certo – un peccato veniale – visto che il senso stesso del divulgare giornalistico dovrebbe contenere in sé in primo luogo l’interesse dei consumatori, relegando le attività promozionali in altre pagine dei giornali (sotto la dicitura “articolo pubbliredazionale”).
Ancora una volta i caprini più autentici, che tanto successo stanno ottenendo, sapranno aspettare. Per loro arriveranno altre occasioni, a partire dalla prossima primavera, quando qualche redattore acuto e indipendente deciderà di dedicare loro un articolo, nel pieno rispetto della loro stagionalità. Compiendo uno degli atti fondanti dell’attività giornalistica, vale a dire il diritto-dovere di informare. E di formare i propri lettori.
12 novembre 2018