
Poche parole e molti numeri. Sono quelli con cui Stefano Berni, direttore del Consorzio di Tutela del Grana Padano ha riassunto, ancora una volta, i record produttivi e commerciali del “formaggio Dop più venduto al mondo”. Ciclicamente, come fosse un mantra, un grido di vittoria, i vertici del consorzio “più dei più” (anche il più sostenuto dai fondi europei per la pubblicità e la comunicazione, ndr) lo lanciano al mercato, oggi da un giornale, domani da un’altro, un po’ per autocompiacimento – forse – e un po’ per ribadire la propria leadership al mercato.
Se però andiamo oltre le parole, o meglio i numeri, sciorinati martedì scorso ad esempio dal quotidiano web Distribuzione Moderna (“…dal 2002 al 2019 la produzione è cresciuta del 35,45%, pari al 2,09% annuo”… “con 4.932.996 forme prodotte nel 2018 e 3.217.074 già lavorate nei primi sette mesi del 2019…”) e chiudiamo gli occhi, per riflettere, vediamo uno sterminato territorio, dalla provincia di Cuneo a quella di Trento, per intenderci, in cui ad eccezione del solo Trentino, l’immagine dominante non è di vacche al pascolo bensì di monocoltura intensiva di mais.
Produrre tanto, e vendere tanto essendosi storicamente posizionati un gradino al di sotto del Parmigiano Reggiano come prezzo, e al fianco di quello negli scaffali dei supermercati, è una strategia che da qualche tempo ha esposto il proprio fianco al mercato, così che negli ultimi anni, il fenomeno più fastidioso, per chi – orientato a produrre e vendere sempre di più – è quello degli emuli del Grana Padano, vale a dire quei produttori che a loro volta hanno preso a commercializzare un loro grana (è la tipologia di formaggio a cui Padano e Parmigiano Reggiano appartengono) andando incontro a chi cerca il prezzo sopra ad ogni altra cosa, vale a dire chi può o vuole spendere poco, ma soprattutto chi, operando nella ristorazione, sa che il primo guadagno lo si ha contenendo la spesa.
È nato così il fenomeno dei similari, formaggi grana che in qualche modo stanno dando fastidio al Grana Padano. Un fastidio ricorrente e irritante – è evidente – perché se ne conosce ogni aspetto e natura, ma non si riesce a impedirlo. Né tantomeno a scalfirlo.
Non più tardi del 23 agosto scorso, lo stesso Berni confidava ai cronisti della Gazzetta di Mantova (oltre ai dati di crescita, ovviamente, ndr) nuovi crucci e vecchie preoccupazioni: i dazi di Trump, una mannaia pronta a tagliare un bel pezzo di export del Grana Padano (e non solo), e l’annosa questione dei “cloni”. Che per paradosso estremo pare siano prodotti in buona parte da alcuni degli stessi caseifici aderenti al consorzio di Desenzano sul Garda.
Ora, se è vero che la lingua batte dove il dente vuole, è assai verosimile che – a differenza dei similari ucraini che imperversavano nella ristorazione europea negli Anni ‘90 – quelli che italiani provengano dagli stessi latti e vacche e stalle che producono Dop (è impensabile che un doppiogiochista organizzi due linee di produzione distinte: sarebbe più la spesa che l’impresa), e che quindi le insinuazioni su una loro qualità inferiore siano infondate, speculative, da rispedire al mittente.
Le dinamiche di mercato sono sempre le stesse: chi a suo tempo scelse il gradino più basso – che ora è quello intermedio – è condannato dal mercato stesso a correre e produrre sempre più, e per paradosso chi si è collocato ad un livello ulteriormente inferiore (inferiore di prezzo, Berni, non se la prenda!, ndr) non ha tutte quelle premure. Né bisogno di accedere ai finanziamenti europei per convincere qualcuno di una naturalità opinabile (il buon fieno evocato in certi spot, “come una volta”) né di una qualità che relativamente interessa chi vuole risparmiare.
16 settembre 2019
P.S.: chi fosse interessato a saperne di più sui livelli produttivi del Grana Padano, legga anche questo articolo di Agronotizie; lo troverà istruttivo