
Troppi galli a cantare, ancora la settimana scorsa, sull’onda dell’inchiesta “Latte versato” di Report (25 novembre scorso su Rai3) che si riprometteva, all’alba di questo mese di ottobre, chissà quali rivelazioni, in merito all’uso – o all’abuso – di latte non italiano nella produzione dei formaggi italiani.
La gran parte di essi – i galli – ingenui e sprovveduti (o più semplicemente non competenti in campo lattiero-caseario), hanno gridato allo scandalo, laddove di scandali non se ne sono visti che pochi, e marginali (sui grattugiati, anche se misti, è inammissibile che entri anche una sola goccia di materia prima straniera, laddove si produca una Dop, quello sì, per la miseria!), in un contesto in cui – va detto – proprio dieci anni fa, l’industria ebbe la premura di informarci sulla sua personalissima interpretazione di un “made in Italy”, che tutti noi credevamo altra cosa.
A precisare cosa sia il “vero” “made in Italy” e ad aiutarci a distinguerlo dal “born in Italy” (ad ogni occasione il neologismo di comodo è presto coniato, e bisognerà attrezzarsi all’uso proprio e improprio che ne verrà fatto) ci ha pensato, martedì scorso 10 dicembre il Sivemp (Sindacato Italiano Veterinari Medicina Pubblica), che si è preoccupato di precisare come “per difendere le produzioni alimentari italiane senza ingenerare confusione, è forse arrivato il momento di affrontare il tema della differenza tra i due termini.
“Nel primo caso”, argomentano i veterinari di quel sindacato, “le materie prime di origini diverse (controllate e salubri) entrano nella filiera della trasformazione e ci offrono prodotti di alta qualità (chissà come chiameremo la qualità realmente alta, ndr) che possono esser legittimamente classificati “Made in Italy””, vale a dire fatti in Italia con latte straniero.
Il fenomeno – state bene a sentire quali argomentazioni vengono addotte – sempre secondo il Sivemp, “ha qualche analogia con ciò che è avvenuto nel settore tessile a seguito della delocalizzazione avvenuta negli anni 80-90. Molte industrie manifatturiere italiane del comparto, oltre a cercare le materie sui mercati internazionali dove si potesse ottenere il miglior equilibrio prezzo/qualità (un eufemismo, per non dire “spendere il meno possibile”, ndr), hanno anche cominciato a predisporre i loro capi lavorati in Paesi con mano d’opera a basso costo (non si capisce il paragone: questo, nel caso del formaggio, non accade ancora, per fortuna, ma diamogli tempo e forse ci potranno riuscire, ndr), chiudendo le fabbriche italiane ed esportando oltre frontiera i macchinari per lasciare a più elementari laboratori italiani il solo compito della selezione e del perfezionamento finale, ma consentendo così di apporre sui capi di moda le etichette “Made in Italy”.
Un paragone che davvero non regge
Una interpretazione, questa fornita dal Sivemp che – è evidente – risulta palesemente fuorviante e in quanto tale va fermamente respinta, giacché l’Italia non produce, da tempo immemorabile, che pochissimo cotone, lane e derivati.
“Per le filiere alimentari”, prosegue quello il vaneggiamento veterinario, “sarà sempre più probabile che le materie prime arrivino da oltre confine (Ue o extra-Ue), anche perché la nostra agricoltura e zootecnia sono poco competitive rispetto alla sfida sui prezzi” – e dirlo è nientepopodimenoché Aldo Grasselli, che di Sivemp è il segretario nazionale – “mentre hanno le carte in regola per eccellere nella sfida della qualità e della tesaurizzazione del valore simbolico della georeferenziazione sociologica e culturale”. Parole forbite, contenuto vacuo, o della serie “guardate come sono bravo ad arrampicarmi sugli specchi”.
“Per questo”, continua l’elucubrazione del Sivemp, “occorre distinguere tra “Made in Italy” e “Born in Italy”. Gli alimenti “Born in Italy”, quindi non solo i formaggi, possono essere caratterizzati da disciplinari e da regolamenti stringenti. I disciplinari che identificano i prodotti alimentari possono essere la chance del momento per le nostre “filiere fragili””. E “possono”, a detta del Sivemp, “prevedere l’esclusione di qualunque ingrediente o componente di lavorazione che non sia legittimata a definirsi italiana o tradizionale”.
Un panegirico infinito, come non se ne sentivano da tempo, per dire che oramai l’industria può fare il bello e il cattivo tempo (lo ha sempre fatto, e ora che il “Re è nudo” ecco la foglia di fico, ndr), senza che nessuno possa avere nulla da obiettare.
La promozione del Made in Italy sarà doppiamente falsa
Peccato davvero che, nel suo lungo parafrasare, l’associazione dei veterinari e il suo segretario nazionale si siano dimenticati di trattare delle argomentazioni che spesso l’industria utilizza per promuovere i propri prodotti “made in Italy”. Ecco, su quel fronte, se davvero si fosse determinati a mettere i puntini sulle “i” – come sembrerebbe, ma come non è, purtroppo – bisognerebbe definire una carta deontologica ad uso (e rispetto) dell’industria, la cui amministrazione andrebbe affidata al garante della pubblicità e del mercato.
Con essa andrebbero definiti esattamente gli aggettivi, i termini , le definizioni che possono essere usati dall’una e dall’altra tipologia produttiva. Perché va bene tutto, forse, ma giammai si potranno appellare formaggi fatti con latte straniero come tipici, territoriali o tradizionali. Chiamiamo ogni cosa col suo nome, e allora la merce dovrà essere definita merce, senza ricami – e richiami, fuorvianti – che portino il consumatore a credere ciò che non è.
Anche perché, è facilmente prevedibile, nessuno nel definire un prodotto “made in Italy” si degnerà di precisare che esso è ben altra cosa rispetto al “born in Italy”. Questo è ora necessario e improcrastinabile, con buona pace dell’industria, della lobby di formaggi che non hanno né anima né radici, e dei veterinari che di quella lobby rappresentano – è evidente – una delle colonne portanti.
In mancanza di ciò, il consumatore che voglia difendere sé stesso, i suoi cari, e – non ultimo – il diritto ad essere informato, ha una sola scelta possibile: quella di voltare le spalle ad un mercato la cui modalità espressiva ha superato il livello di guardia della decenza. Quello della sua credibilità, da tempo ormai remoto, non si sapeva più dove fosse finito, e oggi ancor meno che mai.
16 dicembre 2019