Latte industriale? no grazie! Ma serve una svolta epocale verso quello dell’erba

Il quarto giovedì del 2020 – il 23 gennaio scorso – rimarrà scolpito negli annali del mercato italiano del latte come uno dei più infausti giorni di un settore segnato oramai da un forte – e a quanto pare inarrestabile – declino.

La “bianca bevanda”, che appena 20 anni or sono era percepita dai più come un utile e salutare alimento, si avvia così miseramente verso una decadenza figlia di errori e forzature che hanno radici nelle scelte industriali, nell’insistere sui record produttivi, e sulla cosiddetta zootecnia di precisione (l’ennesima trovata per mungere gli ultimi allevatori, ndr). Una situazione che il sistema industriale avrebbe potuto quantomeno ammortizzare se solo avesse indagato tra le sensibilità e i desiderata dei consumatori.

Una decadenza verso cui il “latte bianco” dei mangimi (quello dell’erba è giallino) è stato avviato anche dall’avversione di vegani e animalisti, che ciclicamente culmina in vere e proprie campagne di criminalizzazione, ma forse ancor più dal crescente fenomeno dell’intolleranza al lattosio – a volte reale, più spesso presunta – causata, è bene sottolinearlo, dalla sempre più discutibile qualità del latte stesso, strettamente legata all’alimentazione e alla vita che molte bovine – nella dimensione di “macchine da latte” – sono costrette a vivere.

Ad aggravare una situazione tutt’altro che rosea, nelle scorse settimane, e negli ultimi mesi, un nuovo campanello d’allarme è suonato, perentorio, su una serissima problematica che tocca la salute pubblica, vale a dire l’antibiotico-resistenza, che la comunità scientifica mondiale riconduce principalmente all’abuso di farmaci (nella fattispecie gli antibiotici, ndr) nella gran parte degli allevamenti industriali, e non solo in quelli delle bovine da latte.

Il prezzo sociale dell’antibiotico-resistenza
Il fenomeno, oltre ad essere assai grave, in particolare in Italia (di questo passo sono previsti 450mila morti nel 2050, ndr), è particolarmente subdolo, dal momento che oggigiorno si può morire anche di infezioni che in passato erano certamente curabili. In sostanza, i principi attivi degli antibiotici che abbiamo a disposizione possono rivelarsi totalmente inefficaci nei confronti di ceppi microbici resistenti, selezionatisi proprio per il suddetto abuso. E così anche le insidie più banali diventano potenzialmente letali, e si torna a morire di polmonite, o per l’insorgenza di un’infezione in un banale decorso post-operatorio.

Un articolo indigesto, per l’industria, e non solo
Tornando alla fatidica data del 23 scorso, il riferimento va all’articolo intitolato “Antibiotici e farmaci nel latte italiano: l’analisi choc del Salvagente”, pubblicato dall’omonimo giornale online, che tanto scalpore ha innescato nei giorni seguenti sia tra gli operatori del settore lattiero-caseario (la lingua forse batte dove il dente duole?) che tra (alcuni) editori e giornalisti, per ragioni non facilmente individuabili (alcuni legati a doppio filo al sistema industriale, altri ufficialmente per motivi deontologici di incerta consistenza).

Il pezzo, suffragato da inconfutabili analisi di laboratorio, denuncia la situazione non certo normale né accettabile in cui versa il settore del latte in Italia, già che una confezione su due dei 21 latti analizzati – freschi e Uht – è risultata contenere significative quantità di antinfiammatori, cortisonici e antibiotici.

A svelare quanti e quali medicinali finiscano nel latte, come spiega l’articolo del Salvagente, “è stato un nuovo metodo di analisi realizzato dalle Università Federico II di Napoli e da quella spagnola di Valencia e utilizzato dal mensile leader nei test di laboratorio, in grado di scoprire contenuti che ai test ufficiali passano inosservati. E che sembrano tutt’altro che rassicuranti, dato che più della metà delle confezioni analizzate hanno fatto rivelare tracce di farmaci. Le più frequenti: il dexamethasone (un cortisonico), il neloxicam (antinfiammatorio) e l’amoxicillina (un antibiotico), in concentrazioni tra 0,022 mcg/kg e 1,80 mcg/kg”.

Quantità e qualità, le due facce dello stesso problema
Un’evidenza che, se da un canto non sorprende i frequentatori delle stalle asservite al sistema industriale, dall’altro inchioda un intero settore produttivo alle proprie gravi responsabilità, etiche e sociali. Un’evidenza che mette in fuga altri consumatori da quella bianca bevanda che molti di noi (chi ha qualche capello grigio, ndr) avevano interiorizzato come salutare, quando forse essa era un poco più giallina, ovvero quando la zootecnia non spremeva ancora 40 o 50 litri di latte al giorno da una vacca. Vale a dire quando la genetica bovina non era così “migliorata” come oggi, e quando la mangimistica non aveva ancora escogitato soluzioni in grado di incrementare i già mirabolanti record produttivi raggiunti dalle lobby del seme (dei tori “migliorati” che garantiscono una progenie altamente produttiva) e della genetica.

“Queste analisi”, ha sottolineato il direttore del Salvagente Riccardo Quintili, “non vogliono essere una penalizzazione alle aziende nelle cui confezioni abbiamo trovato residui di farmaci. Al contrario molte di loro, informate del nostro test, si sono mostrate molto sensibili all’argomento e alle evoluzioni dei loro controlli rese possibili da questo nuovo metodo”.

Una lista nera in cui tutte le industrie potrebbero finire
Dal canto nostro, crediamo sia bene non farci distogliere né dal clamore suscitato dai marchi finiti nella lista nera né persuadere dalle esultanze di chi in quell’elenco non è finito, per una semplice ragione che ancora non è emersa nei ricami che la stampa nazionale ha avanzato, attorno alla denuncia del Salvagente. Se da un lato l’uso di medicinali è legato a problematiche che la dimensione intensiva induce nell’animale (la più evidente è la mastite, tanto più seria quanto più la stalla è produttiva, e su di essa si interviene con i suddetti farmaci, ndr) dall’altro non ci risulta esistere un’industria in grado di evitare con certezza di finire domani nella lista nera.

Vale a dire che se quelle stesse analisi venissero ripetute nel tempo sui medesimi latti, verosimilmente tutti e 21 i nomi di quelle aziende (e anche più, se se ne testassero altri) sarebbero riscontrabili a volte tra i prodotti da evitare, altre volte nell’elenco dei “virtuosi” o, per meglio dire, dei “meno peggio”.

Tutto ciò a causa di un sistema-latte che – nonostante si parli da tempo della necessità di ridurre l’uso di medicinali nelle stalle – pare non aver fatto ancora nulla di concreto (se non qualche convegno sul tema, ndr) per riportare sia quel prodotto sia i suoi derivati verso un cambiamento sostanziale, e fuori dalla prospettiva dell’oblio.

Maledetta mastite
“Questi farmaci”, ha spiegato dalle pagine del Salvagente il veterinario Enrico Moriconi, consulente e garante degli animali per conto della Regione Piemonte, “sono utilizzati per curare le mastiti nelle vacche da latte. La ragione dell’uso di antibiotici come l’amoxicillina è la frequenza con cui contraggono le infezioni alle mammelle come la mastite”. “Tra l’altro”, prosegue Moriconi, “il fatto che siano stati trovati dei residui nel latte ne è la dimostrazione: se fossero stati utilizzati farmaci per curare altri tipi di infezioni, questi sarebbero stati smaltiti da reni e fegato”. Per la stessa ragione, aggiunge Moriconi, sono stati impiegati gli altri due farmaci: “In genere, si somministra un antibiotico mentre il cortisone e l’antinfiammatorio sono coadiuvanti”.

A chi, minimizzando il problema, ha sostenuto che le sostanze medicinali rinvenute nei latti erano sotto la soglia di legge, replica il pediatra e gastroenterologo Ruggiero Francavilla dell’Università degli Studi di Bari, ancora dalle pagine del Salvagente, con una risposta che allude alla natura di cibo quotidiano che il latte ha soprattutto tra i bambini: “L’assunzione costante di piccole dosi di antibiotico con gli alimenti”, spiega il pediatra, “determina una pressione selettiva sulla normale flora batterica intestinale a vantaggio dei batteri resistenti agli antibiotici che diventano più rappresentati; questa informazione genetica viene trasferita ad altri batteri anche patogeni”.

“Il secondo pericolo”, prosegue Il Salvagente, “è che questi farmaci alterino il microbiota umano”. A spiegarlo è Ivan Gentile, professore associato di malattie infettive presso l’Università Federico II di Napoli: “In questo caso non si può escludere un rischio, sebbene basso, che l’esposizione anche di minime quantità, soprattutto in maniera ripetuta, possa avere ripercussioni sul microbiota intestinale cioè su quell’insieme vario di microorganismi che vivono con noi (nell’intestino, sulla cute, nella cavità orale per fare qualche esempio) e che esercitano effetti benefici (a livello digestivo, immunitario, protettivo)”.

A fronte di queste evidenze e considerazioni, nella palese incertezza in cui l’industria del latte convenzionale ha lasciato i consumatori, spesso allontanando le responsabilità con gli slogan (le chiamano fakenews, ricordate?), bisogna ora rispondere co fatti.

L’unica via è nel latte dell’erba
Nell’incertezza del consumatore, tra la prospettiva di abbandonare il latte o meno, la soluzione migliore è quella di una terza via, possibile già da oggi: tornare al latte di ieri, che alcuni allevatori (ancora pochi purtroppo) hanno ripreso a produrre, trattando le vacche per quello che sono: non macchine da latte ma erbivori. Animali cioè che non vanno alimentati con mangimi per produrre di più ma con erba e fieno, per assecondare la loro natura.

Uno dei latti dell’erba statunitensi, garantito “no antibiothics, no synthetic hormones, no Gmo”. Costa 12 US$ al gallone (qui il tetrapak da mezzo gallone), vale a dire un poco più di 3US$ a litro. Più in basso un latte che costa il 75% in meno

Queste aziende esistono e sono in grado di portare il loro latte anche in città: i consumatori più attenti e documentati di Torino, Milano e Roma, già lo sanno. E più consumatori e più richiesta ci sarà di buon latte e più quelle aziende virtuose cresceranno di numero (giammai gli allevatori esistenti dovranno accrescere il numero di animali), allargando la schiera degli allevatori virtuosi di cui una crescente parte del mercato sente il bisogno.

Più che una fuga dal latte, quello che si prepara adesso è – per chi lo sarà meritato – un passaggio da un latte su cui aver dubbi è quantomeno lecito a quel latte salutare di cui una volta si aveva certezza. Un latte che ancora esiste e che va premiato con il crescente consenso del mondo dei consumi. Non ci si scandalizzi quindi se un buon latte costa anche il doppio di un latte convenzionale (accade ovunque nel mondo: qui a sinistra un esempio statunitense): si favoriscano le aziende che hanno il coraggio di mantenere vive le produzioni da erba, le si vada a visitare, si parli con i produttori, ci si documenti. E si organizzino giornate di divulgazione per sensibilizzare il mercato, a cominciare dai bambini e dai loro genitori.

Il mercato Usa è così maturo da avere sugli scaffali sia i latti di primo prezzo (3 US$ a gallone, scremato qui nella foto) sia i latti del pascolo, garantiti senza vitamine, senza ormoni di sintesi né Ogm (12 US$ a gallone, nella foto qui sopra).

Prepariamoci alla svolta epocale di un mondo dei consumi che finalmente sia in grado di rispondere a chi irresponsabilmente ha barattato la qualità con la quantità, mettendo in gioco la salute dei consumatori, grandi e piccoli che siano. E ci si collochi – senza “se” e senza “ma” – in quel mondo virtuoso fatto di allevatori contadini, tecnici, commercianti e consumatori che non si preoccupano solo della plastica in eccesso o dell’olio di palma, ma anche e più compiutamente di informarsi davvero, di quanto un prodotto pesi in termini di sostenibilità e di salute. Per noi stessi e per i nostri cari.

27 gennaio 2020

Per saperne di più:
Il Salvagente – “Antibiotici nel latte: ora che sappiamo non possiamo far finta di nulla” (video)
Il Fatto Alimentare – “Latte con antibiotici, alluminio nel cibo, troppe notizie allarmistiche senza valutazione del rischio