Nielsen: il latte Uht vola (+34%) ma è ancora in gran parte straniero

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Vivere nel mezzo di una pandemia non è per nulla facile; lo stiamo capendo ognuno sulla propria pelle. La gran parte di noi passa il proprio tempo in casa, in situazioni del tutto anomale: tutto il giorno con i figli, il coniuge, i nonni. Se ancora ci sono. Con impegni nuovi e non sempre semplici da gestire (le lezioni di chi ancora va a scuola), e situazioni che si vanno modificando di giorno in giorno (attenzione, il 63% degli italiani sono stressati, ndr): la competizione mai vista prima in famiglia per chi porta il cane a spasso; il cane che ti guarda perplesso perché non ti sei occupato mai così tanto di lui. Per non parlare dei professori, mai stati così presenti nella tua vita: tanto lontani quanto incombenti, al rintocco di una campanella che non c’è ma che mai come oggi ha saputo scandire i tempi delle nostre vite.

E poi la spesa. La spesa che per disposizioni governative va fatta nel supermercato più vicino; quello che magari hai evitato per anni, per una proposta che non ti ha mai soddisfatto quanto invece ti aggrada quella del tuo punto vendita di fiducia. Che però è lontano, maledettamente lontano. [segue dopo la pubblicità]

 

E le botteghe? Vogliamo parlare delle botteghe, per chi ancora o finalmente le preferisce – o preferirebbe – ai canali della Gdo? Voi, ve lo prendete il rischio di una denuncia per essere andati in bottega, se ottocento metri prima di quella c’è un supermercato? Noi sì, senza ombra di dubbio all’occorrenza ce lo prendiamo. Ma non tutti amano rischiare, si sa: se l’agente di turno che vi fermerà avrà la luna storta (non difficile di questi tempi, ndr) la denuncia scatterà di sicuro, perché qualcuno deve avergli detto di avere polso, e di prendere provvedimenti esemplari, senza “se” e senza “ma”.

E allora corriamo tutti – o quasi – al supermercato. Anche chi, come noi, lo usava al massimo per la carta igienica e poco altro ancora. Anche se molti di noi, preferendo le botteghe, amano leggere le etichette, ai destreggiano tra le insidie che il cibo industriale ci riserva ogni giorno, più volte al giorno e in queste situazioni ancora e ancora di più.

Chi si ferma a osservare quelle del latte Uht, ad esempio – e in questo periodo si spera non siano i soliti quattro gatti a cercare di capire – non saprà nulla del suo valore nutrizionale (oh, se solo esistesse del #lattederba Uht, lo vorremmo senz’altro provare!) ma scoprirà, se non l’ha già scoperto, che la gran parte di esso arriva dall’estero, contiene latte estero e costa di meno. quel che no sapremo mai – come peraltro accade con tutti i latti in commercio – è come sia nato quel latte: da quali vacche, alimentate e vissute chissà come. [segue dopo la pubblicità]

 

Che in Italia circoli latte straniero a fiumi, lo sapeva già da tempo Coldiretti, che in questi giorni non ha perso l’occasione di tornare alla carica con i propri proclami, ammorbando di appelli i media nazionali e locali, col dichiarato ufficiale intento di salvare le ultime stalle, giunte allo stremo, e col malcelato obiettivo di mantenersi sempre al centro della scena, semplicemente per impedire ad altri di calcarla. Ancora una volta parole-parole-parole che – come già accaduto in passato – la prima associazione agricola spande al vento senza che alcunché di concreto venga fatto.

E che nel nostro Paese circoli latte straniero – e che circoli a fiumi – lo sapevano sia i giornali che il Governo stesso, già che l’attuale ministro e i suoi predecessori sono ed erano ben informati – ma tacitamente senzienti – ad uno status quo che – adesso è chiaro – appare immodificabile; nonostante che le denunce del Salvagente (leggi qui e qui) e di Report abbiano provato a scuotere molto più che le sole coscienze.

Facile quindi difendere il made in Italy a parole; molto più difficile farlo nel concreto, già che a governare chi ci governa sono le industrie e le lobby. Per cui il buon incremento di vendite registrato dal latte Uht in questo clima di segregazione (dati Nielsen: +34,1% la scorsa settimana rispetto allo stesso periodo del 2019; +64% la precedente) mette sì in ginocchio la nostra zootecnia da latte, che negli anni non è stata in grado di costruire un’alternativa valida alla produzione intensiva (sempre malata di mangimi; spesso anche di antibiotici, ndr), se non per l’encomiabile opera di poche micro-produzioni che di sicuro si son fatte da sé, con coraggio e senza aiuto alcuno. [segue dopo la pubblicità]

 

È tempo di sostenere gli eroici produttori della qualità reale
Stiamo parlando di piccoli allevatori il cui prodotto – per varie ragioni – mai troveremo in un supermercato: rare disponibilità di latte Salvaderi sono presenti in Lombardia e nel Lazio, mentre quelle di Cascina Roseleto sono reperibili nel torinese, in entrambi i casi attraverso le mappe dei siti web aziendali, presso qualche illuminata bottega e nulla più, già che ristoranti, gelaterie e mercati contadini sono chiusi in parte e chissà perché (i mercati) e, nel complesso, vallo a sapere ancora per quanto.

Nel frattempo, mentre nel vicino territorio austro-bavarese il Latte fieno Stg (là denominato Heumilch Stg) mantiene egregiamente il contraccolpo di una pandemia ancora al galoppo chissà per quanto, sul mercato italiano esso pare incapace di varcare a sud il confine altoatesino. Se nel Trentino esso non è un prodotto misconosciuto, appare evidente come ad ovest, sud ed est di quella provincia il prodotto appaia ancora misconosciuto ai più, e persino i derivati di quel latte (yogurt in primis), li vediamo spesso scivolare nel banco dei prodotti in scadenza prima di essere venduti, rei forse di costare 10 centesimi in più di quanto l’italiano medio sia disposto a spendere per un volgare yogurt dei mangimi.

Per il futuro, sono auspicabili e serviranno soluzioni nuove. Soluzioni che difficilmente arriveranno se non da singoli piccoli produttori, nella speranza che l’esempio virtuoso dei pochi su citati offra lo spunto ad altri per convertire – come essi stessi fecero – da mais ad erba, appena pochi anni or sono. [segue dopo la pubblicità]

 

Verso un #lattederba Uht? Magari!
In un’Italia che mai riuscirà ad organizzare cooperative di produttori, come accade in Francia e in Svizzera, e come il virtuoso modello bavarese LINK potrebbe insegnare (se ci fossero “alunni”, ndr), ciò che possiamo auspicare è che i soggetti in grado già di produrre eccellenza sappiano osservare e capire le tendenze del mercato e farne tesoro. Con l’esempio del latte Uht che galoppa, e che verosimilmente confermerà la propensione di molti verso il prodotto di alta conservabilità anche nel post-pandemia, c’è da sperare che qualche produttore virtuoso prenda in considerazione anche quel segmento, al fine di ampliare la gamma, il proprio operato e il raggio d’azione su un mercato che non è poi troppo distante – se si considera il segmento professionale – da quello del latte fresco.

Bere latte Uht dell’erba, o consumarlo sotto forma di gelato o di prodotto di pasticceria, potrebbe essere uno scenario auspicabile, per offrire a strati sempre maggiori di popolazione un prodotto che – pur trattato ad alte temperature – ha in sé il sano imprinting di grassi salutari e di micronutrienti utili al nostro organismo. E anche per mettere a freno, chissà, la strabordante presenza straniera che nessuno dei tanti sedicenti difensori dell’italico prodotto – lo abbiamo capito, oramai – proverà mai a contrastare.

30 marzo 2020