Wipo plaude alla sostenibilità zootecnica, ma la strada da fare è ancora molta

Vacche Frisone alla mangiatoia, in una stalla – foto di U.S. Dept. of Agriculture©

Il Consorzio del Grana Padano incassa un altro riconoscimento internazionale frutto palese delle attività promozionali, su cui l’ente di tutela del “formaggio Dop più venduto al mondo” investe da anni ingenti risorse. Senza dubbio, un’attività ben congegnata per alimentare la stampa italiana ed estera di buone e utili notizie, in grado di sostenere l’immagine della propria filiera produttiva.

L’ultimo risultato, in termini di tempo, ma ben efficace sul piano della persuasione dei consumatori, è giunto a fine aprile dalla Wipo (World Intellectual Property Organization) e – udite udite – ha riguardato la sostenibilità ambientale di quella produzione, nonostante essa non preveda l’alimentazione al pascolo o da fieno bensì una nutrizione animale basata fondamentalmente sugli insilati di mais, l’unifeed e – in senso lato – sulle monocolture e sull’agricoltura intensiva.

E così, in occasione della Giornata Mondiale della Proprietà Intellettuale 2020, incentrata su una delle tematiche di grande attualità qual è l’“innovare per un futuro verde”, la Wipo ha segnalato 21 iniziative di rilievo a livello mondiale tra cui uno dei progetti “Life”, denominato “The Tough Get Going”, promosso e sostenuto per l’appunto dal consorzio di questa Dop, per il “miglioramento della sostenibilità ambientale della filiera” produttiva, “per farne un riferimento”, si legge in un comunicato stampa dell’ente, “in tutto il sistema caseario” (si suppone sia sottinteso il segmento della zootecnia intensiva e non chi pratica il pascolamento e l’alimentazione basata sul fieno, ndr). [continua dopo la pubblicità]

 

«Per dare un domani al nostro pianeta», è questo il parere di Stefano Berni, direttore generale del consorzio, «con gli oltre sette miliardi di donne e uomini che lo popolano, siamo certi che rispettare il suo equilibrio naturale sia la condizione preliminare.  Se il futuro non sarà green temiamo che neppure si potrà avere un futuro e questa nostra consapevolezza si rafforza nell’attuale situazione di pandemia planetaria”.

Parole che non convincono del tutto, a nostro parere, se si pensa alle varie e recenti indagini scientifiche che puntano il dito verso le produzioni basate su una zootecnia stabulata (quella del Grana Padano lo è), le deiezioni divenute un peso non sostenibile per l’ambiente (nei sistemi non intensivi sono una risorsa) e più in generale verso sessanta anni in cui gli allevamenti industriali hanno rotto equilibri ambientali (monocolture di mais), impoverito la biodiversità (se l’animale non pascola il numero delle essenze vegetali si riduce) e pesantemente asservito milioni di animali di razze specializzate (iperproduttive, da latte e da carne) alle vecchie logiche del “produrre tanto per sfamare il mondo” (con le vacche che anziché vivere 18 anni sopravvivono 5 anni a malapena, con zoppie, acidosi, mastiti, ndr).

Chi più produce è chiamato a ripensare la propria attività
Ovvio che non tutto e non solo dipenda da una singola produzione (come quella del Grana Padano, che pure ha i suoi estimatori) ma dalla complessità delle produzioni su larga scala, e mai come oggi urge orientare le azioni non più né tanto o solo sul fronte della propaganda o dell’attuazione di palliativi ma sulla unica e pressante necessità di trovare una nuova formula e nuovi equilibri, partendo da quel che si sarebbe dovuto fare di buono e da quanto si è sbagliato sinora. [continua dopo la pubblicità]

 

«Il progetto Life», insiste Berni, «è coordinato dal Politecnico di Milano, attraverso i Dipartimenti di Energia e Design ed in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, e si aggiunge agli studi specifici che in 20 anni  il Consorzio ha promosso con altri prestigiosi atenei per migliorare la sostenibilità ambientale dell’intero processo produttivo puntando a ridurre sempre più le emissioni nell’ambiente e contribuendo così a migliorare la difficile situazione dell’aria nel bacino padano».

Ma a fronte della propensione a migliorare, la situazione rimane ancora critica, e proprio quello della Pianura Padana è l’ecosistema con maggiori criticità del Vecchio Continente. Serve allora non tanto un’attitudine a “migliorare” (di quanto, di una virgola? di una spanna?) bensì la propensione a cambiare registro. A fermarsi, valutare appieno gli errori, gli impatti, e riformulare un’attività che nel complesso andrà necessariamente ridimensionata (come pensare a tante stalle, cariche di animali, che il più delle volte non vedono il sole, in un territorio con disponibilità foraggera scarsissima?) e riorganizzata.

“Tra i punti di forza dello studio”, incalza il comunicato del consorzio del Grana Padano, “la creazione di un software di supporto alle decisioni ecosostenibili (EDSS) dei produttori, in grado in particolare di valutare l’impronta ambientale delle produzioni e di adottare tecniche e soluzioni per migliorarle”. [continua dopo la pubblicità]

 

“Per Wipo”, conclude il comunicato stampa, “il caso Grana Padano è un perfetto esempio di come, attraverso lo speciale filo che lega tutti gli attori della sua catena di produzione, un’indicazione geografica possa avere un impatto significativo sull’ambiente dell’area, della regione o del paese da cui proviene, quando abbraccia politiche di sostenibilità”.

Ancora una volta tornano ad essere opinabili affermazioni non “misurabili”, che ruotano attorno a concetti che – trattati in questo modo – non aiutano nessuno a capire come stanno le cose: non si può parlare di benessere animale (con bestie in stalla per una breve e innaturale vita), di sostenibilità (con spandimenti derogati in pieno inverno), di impatto ambientale se si rimane estranei o ci si disinteressa alla dimensione ecologica nelle quali le produzioni animali vanno considerate.

E allora ecco che la sostenibilità deve divenire non un auspicio ma un obbligo del mondo allevatoriale, e non solo del Grana Padano ma di tutto un mondo di produzioni “di massa”: sul fronte della gestione dei reflui, ad esempio, dove la digestione anaerobica potrebbe rappresentare – con i dovuti paletti – un’opzione da considerare, con il refluo che dev’essere visto come un substrato per produrre energia e fertilizzanti rinnovabili – e magari ridurre i gas serra dovuti in larga parte proprio all’allevamento industriale – riducendo drasticamente l’impronta ecologica della zootecnia. [continua dopo la pubblicità]

 

Se davvero esistesse una sincera propensione ad operare in questi termini, servirebbero altre ed altre innovazioni, con i reflui che dovrebbero divenire fertilizzanti (su questo le Università si dovrebbero impegnare concretamente, non solo nei convegni e nell’esprimere delle buone intenzioni, ndr) che dovrebbero prima ridurre e poi accantonare i concimi chimici, puntando a limitare, ma per davvero l’impatto ambientale e condurlo verso lo zero.

E ancora, la distribuzione dei reflui andrebbe gestita rigorosamente nei tempi e nelle stagioni più propizie, tenendo conto dello stato reale dei terreni (composizione, fertilità, capacità di assorbimento) evitando che l’impatto di azoto e fosforo superi le necessità dei campi. Non secondariamente si dovrebbe investire nell’installazione di impianti che permettano il recupero dei nutrienti e una loro oculata delocalizzazione.

In altre parole servirebbe anche di sgomberare il campo dalle divergenze e dalle alzate di voce dell’una parte e dell’altra, adottando una nuova propensione al dialogo: non il voltarsi dall’altra parte, quando si parli di zootecnia intensiva come a dire “la questione non mi riguarda”, ovvero che “da qualche parte c’è chi opera in maniera più critica di me, quindi iniziate da loro”. [continua dopo la pubblicità]

 

Le recenti campagne di sensibilizzazione di gruppi ambientalisti (per produzioni agro-zootecniche su piccola scala), ma anche i diversi servizi giornalistici (non solo “Indovina chi viene a cena” di Rai 3: guarda qui, ma anche qui e infine qui), e non ultima la presa di posizione di molti Sindaci del bresciano (guarda caso nel territorio in cui ha sede il consorzio del Grana Padano), che richiedono l’introduzione di un “indice di pressione” ambientale, lasciano pensare che i tempi siano maturi per sedersi attorno ad un ideale tavolo comune, e – dopo tanto parlare – mettere mano ai fatti.

Non siamo noi a chiederlo; lo pretende l’ambiente. E non c’è più tempo da perdere.

11 maggio 2020