
Ci sono anche loro, finalmente: Grana Padano e Provolone Valpadana hanno deciso di aggregarsi al Pecorino Romano e di prendere parte al progetto “Made Green in Italy”. Un progetto che nelle parole dei fautori “promette di coniugare qualità e sostenibilità per favorire la competitività su mercati nazionali e internazionali”.
Parole che suonano bene all’orecchio del consumatore medio, certo – supportate poi da un marchio che ispira fiducia (la parola “green” apre le porte del cuore) – soprattutto perché l’iniziativa parte dalla Commissione Europea e coinvolge enti di ricerca, studiosi, esperti, quindi nulla di più rassicurante. Anche se ad un orecchio critico e informato qualche minima ombra di dubbio è lecito che prevalga.
Il “Made Green in Italy”, lo dicono anche molte agenzie stampa e giornali in questi giorni, “è lo schema nazionale per la valutazione e la comunicazione dell’impronta ambientale dei prodotti; è basato sulla metodologia Pef (Product Environmental Footprint), sviluppata dalla Commissione Europea per promuovere modelli sostenibili di produzione e consumo”.
Ma non solo: è anche “uno schema con cui il ministero dell’Ambiente vuole stimolare il miglioramento continuo delle prestazioni ambientali (semplicemente il miglioramento: ma di quanto, e per raggiungere quali obiettivi?, ndr) dei prodotti “Made in Italy” nel loro intero ciclo di vita, garantendo la trasparenza e la comparabilità delle prestazioni ambientali al fine di incoraggiare scelte informate e consapevoli da parte dei consumatori”. [continua dopo la pubblicità]
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Nel commentare la notizia, il presidente del Consorzio di Tutela del Grana Padano, Cesare Baldrighi, ha detto: «Riteniamo che l’iniziativa promossa dal ministero dell’ Ambiente sia un’opportunità per favorire e stimolare una crescita sostenibile delle produzioni nazionali di qualità». A dargli supporto è arrivata anche la voce di Libero Stradiotti, presidente del consorzio del Provolone Valpadana, secondo cui «con il programma “Made Green in Italy” abbiamo colto l’occasione per ottenere i dati necessari per comporre un quadro molto utile per il rinnovamento della nostra filiera». Frasi di certo impegnative per due produzioni che – ne diciamo una su tutte – basano l’alimentazione delle loro bovine sulla monocoltura di mais, che – non siamo certo i primi a dirlo – con l’ecologia ha davvero ben poco da spartire.
Pensare ad erbivori che mangiano insilati di mais per una vita e leggere di “modelli sostenibili di produzione e consumo” lascia quantomeno curiosi di scoprire un giorno quali risultati saranno raggiunti.
Dal canto suo, buon ultimo ad esprimersi nelle comunicazioni stampa dei giorni scorsi – ma primo ad aver aderito, già da diversi mesi – Salvatore Palitta, presidente del Consorzio di tutela del Pecorino Romano, ha sobriamente detto che «abbiamo aderito a questo progetto con entusiasmo e convinzione, perché da sempre puntiamo a coniugare qualità del prodotto e sostenibilità». Un’affermazione più comprensibile, già che in quella realtà un po’ di fieno ancora si usa. [continua dopo la pubblicità]
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Cosa pensare, quindi, se non che il tempo è galantuomo? Basterà aspettare per vedere quali apprezzabili risultati saranno raggiunti, nella speranza – per gli interessati – che questo marchio possa avere un fulgido futuro, a differenza di altri che un tempo vennero tanto decantati (ad esempio quello del CReNBA, per il benessere animale) per poi conoscere l’oblio, di fronte alla palese pochezza dei traguardi raggiunti (come Sabrina Giannini ha dimostrato nel suo “Indovina chi viene a cena” del 26 aprile scorso).
18 maggio 2020