Sotto un pressing asfissiante l’industria sforna il manualetto della stalla “ideale“

foto M.Corti©

Mentre una parte crescente dell’Italia guarda con favore all’iniziativa di Enpa, Greenpeace,  Legambiente e CiWF (Compassion in World Farming), che finalmente tornano a pressare la ministra Bellanova per il varo di un’etichetta che consenta di distinguere gli allevamenti intensivi da quelli che rispettano gli animali, le aziende coinvolte nelle produzioni più spinte – ma anche i tecnici e i giornalisti loro sodali – cercano di rattoppare una falla che col passare del tempo – e della presa di coscienza dell’opinione pubblica – si fa sempre più grande e verosimilmente irreparabile.

Fateci caso: da qualche mese a questa parte agli animalisti e agli ambientalisti che da sempre puntano il dito contro gli allevamenti industriali, si sono aggiunti fautori del Green New Deal, economisti, intellettuali, virologi e tanta gente di buon senso che, grazie alla pandemia da Covid-19, si è soffermata a riflettere sulle conseguenze che la zootecnia intensiva può portare alla sanità pubblica, a livello globale.

Sul banco degli imputati sono così saliti le produzioni più forzate, e l’idea che il produrre tanto per inseguire il guadagno di pochi (e del sistema che a quelli è connesso: industrie dei mangimi, del farmaco, degli integratori, del seme, etc., ndr) espone il genere umano a rischi che non possiamo più permetterci. Tesi solidissime, sostenute da studi scientifici inconfutabili, hanno armato le penne di molti giornalisti, che hanno accresciuto la pressione mediatica sulle centrali produttiviste.

I rischi previsti dai ricercatori di tutto il mondo non sono cosa da poco: includono l’insorgenza di malattie infettive – in particolare zoonosi sempre più virulente – e l’antibioticoresistenza – un vero flagello annunciato – che ha proprio nelle produzioni intensive il primo fronte su cui operare una drastica opera di riconversione. In altre parole forzare le produzioni oltre i naturali limiti fisiologici delle bestie (una vacca da 20 litri di latte al giorno non deve produrne 40 ma neanche 30, ndr) comporta un’infinità di problematiche (ad esempio la mastite, ndr) che ovunque nel mondo vengono contrastate con somministrazioni farmacologiche. Un andazzo che può e deve cessare attraverso una riconversione verso modelli produttivi meno esasperati e più trasparenti.

Un sistema di allevamento animale richiede, tanto per gli animali allevati quanto per gli esseri umani, che la prevenzione delle malattie abbia un ruolo centrale imprescindibile e ineludibile. E che il sistema sanitario sia efficiente e rapido nel fornire supporto preventivo e un monitoraggio costante delle produzioni, ma tutti gli sforzi possibili avranno tanta maggior efficacia solo se la soglia di rischio verrà abbassata, frenando la corsa produttivista e i palesi problemi che essa comporta.

È evidente che le azioni per proteggere la salute degli animali avvantaggino anche la salute umana, ed è su questo fronte che dovranno essere compiuti i prossimi passi, garantendo ad ogni animale da reddito un buono stato di salute, monitorato e certificato, facendo in modo che, laddove non esista la possibilità di garantire l’assoluta efficacia di un controllo costante e responsabile, si introducano ulteriori freni e limiti, attraverso il principio di precauzione in materia di salute umana e animale.

Tutto ciò tarda però ad essere inteso dal sistema industriale, che accompagna la crescente e insulsa lamentazione (non si capisce bene a chi parlino, ndr) di chi si dichiara vittima di un improbabile complotto (il latte sarebbe ingiustamente demonizzato attraverso i media più o meno social con tesi false introdotte da entità astratte, ndr) con nuovi strumenti di difesa e salvaguardia di un sistema che sembra vacillare come mai prima.

L’ultima mossa appare eloquente: la produzione di un libercolo che traccia l’identikit di una “stalla ideale”, mantenendo però maglie assai larghe e libertà tutt’altro che auspicabili. Un tentativo di aggrapparsi ad una denominazione, brevettandone il nome e abusando di un termine – quello dell’etica – che presto potremmo vederci proporre sulle etichette di cibo tutt’altro che legato al bene, al giusto e alla moralità che la vera etica imporrebbe.

7 settembre 2020