Il tema delle frodi alimentari, di cui le imitazioni sono uno degli aspetti più rilevanti – tiene banco sulla cronaca di questi giorni, come se già non se ne parlasse da anni, e come se non esistessero i marchi di protezione – Dop, Igp, Stg – e gli strumenti di tutela per evitarle. Evidentemente qualcosa non va negli uni e negli altri: quantomeno al di fuori dei confini comunitari il fenomeno non recede e gli interventi per contrastarlo appaiono spesso inefficaci. Per non dire talvolta grotteschi e irragionevoli (come l’ultimo del Grana Padano ad uno YouTuber d’Australia).
A ribadirlo, con estrema concretezza, adducendo numeri e dipingendo uno scenario assai complesso, è stato martedì scorso 24 novembre, il presidente del Consorzio di Tutela del Parmigiano Reggiano, Nicola Bertinelli.
«Per quanto riguarda il Parmigiano Reggiano», ha esordito Bertinelli, «la maggior parte dei casi di italian sounding consiste nel fenomeno dell’evocazione e imitazione del nome: operatori di tutto il mondo cercano infatti di sfruttare la notorietà e l’ottima reputazione del nostro prodotto richiamandone, con diverse modalità, la denominazione. Sono comuni anche i casi di prodotti trasformati che, in etichetta, segnalano impropriamente la presenza di Parmigiano Reggiano, per trarne un indebito vantaggio”.
«Il fenomeno», ha aggiunto Bertinelli, «ha una dimensione economica rilevante: il Consorzio stima, infatti, che il giro d’affari del falso Parmigiano – il Parmesan – considerando soltanto l’area extra-Ue, sia pari a 2 miliardi di euro, circa 200.000 tonnellate di prodotto, vale a dire 15 volte il volume del Parmigiano Reggiano esportato».
Il fenomeno sarebbero stato registrato un po’ ovunque nel mondo, ma sicuramente gli Stati Uniti e il Canada rappresentano i Paesi che al di fuori dall’Unione Europea registrano il maggior numero di casi, anche perché là è nato il Parmesan, da italiani emigrati all’inizio del Novecento. Italiani all’estero che – senza porsi il problema e per farsi intendere dai consumatori – denominarono quel formaggio con la sua traduzione. Nessun dolo in origine (non esistevano ancora le Dop) ma una situazione difficile da dipanare, già che è anche vero che chi ha sempre acquistato Parmesan continuerà a cercare e volere Parmesan. E avrà il diritto di trovarlo con quel nome.
Non è di questo avviso il presidente del Consorzio parmense, che a questo proposito dice: «Il consumatore americano che acquista il Parmesan è spesso convinto di acquistare un prodotto italiano. Il Consorzio ha mostrato ad un campione significativo di consumatori americani un Parmesan che riportava in etichetta l’indicazione esplicita “Made in Wisconsin”. Due terzi del campione intervistato ha dichiarato di ritenere il prodotto di provenienza italiana». Verosimilmente, laddove non c’è cultura profonda, è lecito pensare che il consumatore medio di quei Paesi non stia tanto a sottilizzare tra “prodotto di italo-americani” e prodotto di italiani”, ovvero d’Italia.
Ma la situazione sarebbe ulteriormente complessa, e per capirlo il consorzio del Parmigiano Reggiano avrebbe esteso le sue indagini nell’emisfero Australe: «In Nuova Zelanda abbiamo fatto un sondaggio», ha concluso Bertinelli, «interrogando i consumatori sull’origine di alcuni prodotti: latte, pane e uova non sono stati associati a nessuna area di origine. Quando abbiamo mostrato il nome Parmesan i consumatori erano concordi sul fatto che provenisse dall’Italia. Ciò significa che Parmesan non è generico. Per questo motivo il Consorzio del Parmigiano Reggiano si batte affinché, anche fuori dall’Unione Europea, il nome Parmesan possa essere utilizzato solo per l’autentico prodotto Parmigiano Reggiano». Un progetto ardito, sul filo della logica giuridica, che a nostro avviso non rende merito ai tanti casari italiani emigrati in Nord America, che oltre a creare – non volendo e loro malgrado – un “casus belli”, sono stati anche i primi ambasciatori del “made in Italy” alimentare.
Per risolvere la questione – lo sa bene Bertinelli – basterebbe imporre l’obbligo di evidenziare sui Parmesan la zona di produzione, senza pretendere di privare i suoi caseifici del nome di un prodotto che ha tutto il diritto di chiamarsi come si chiama da un secolo, non da ieri. In altre parole, sarebbe il caso di rammentare al presidente del consorzio, che per vincere una guerra non si deve pretendere di vincere tutte le battaglie, meno che mai scippando al “nemico” qualcosa che a quello appartiene.
30 novembre 2020