Il Crea è al lavoro per migliorare il latte intensivo, ma trapelano riserve

Nella foto vacche derivate da crossbreeding (qui di Holstein x Rossa Norvegese), più robuste, sane e longeve

Il malato è grave, molto grave, e al suo capezzale sono accorsi i tecnici di Stato, i medici che si consultano  attorno al paziente, comandati per operare il loro accanimento terapeutico, pur di mantenerlo in vita. È quanto balena agli occhi di chi guardi alla zootecnia da latte nazionale (la cronicamente malata zootecnia intensiva) con occhio critico, dopo che il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria) ha ufficializzato le prospettive legate ai progetti Miqualat e Reddbov (quanta fantasia in queste denominazioni!), nel corso del congresso annuale Eaap (European Association of Animal Production), svoltosi in modalità virtuale dall’1 al 4 dicembre scorsi.

L’operazione prende il via da un dato di mercato che le lobby di settore ancora pensano di poter raddrizzare, in qualche modo: un prodotto che ha perduto l’11% del mercato negli ultimi otto anni, per cause più o meno accertate e percepibili – ma soprattutto per l’ostinazione a produrre tanto, troppo, quindi male – pensa di risollevarsi attraverso una strategia che di sicuro non prevede solo lo step attuale, fatto di interventi tecnici che i promotori indicano come “migliorativi”, senza peraltro garantire alcun risultato concreto. Ma che assai verosimilmente includerà una futura attività di promozione, anche quella, come altre e insulse operate in passato, di certo a carico del contribuente. Giammai dell’industria.

Nessuno ovviamente, avvicinandosi alla crisi del prodotto industriale, ha approcciato la questione del crollo del consenso, ancor prima che della richiesta di mercato, con un minimo di autocritica: alla necessità di esercitare un reale miglioramento del benessere animale e della sostenibilità ambientale delle produzioni intensive – che pure una parte del mercato residuo avrebbe apprezzato – i genii (politici, industriali, tecnici) a cui la questione è stata affidata hanno sinora pensato “bene” di rispondere con palliativi se non anche con l’inganno.

Insistere nell’argomentare su uno pseudo-benessere di animali reclusi in stalla a vita, adducendo ad esempio un migliorato rapporto relazionale tra simili, o affermando che l’acqua non deve mai mancare (ci mancherebbe altro!, ndr), ha portato l’effetto opposto a quello che i suddetti genii (del “male”) si sarebbero attesi. Tesi tanto inconsistenti e fatue – che non avrebbero dovuto essere neppure avanzate – si stanno ritorcendo contro l’intero settore, giacché gli acquirenti di oggi – è evidente – dimostrano di essere più esigenti e attenti di quelli di ieri.

Un progetto foriero di belle speranze
Ma veniamo ai due progetti e cerchiamo di capire come verranno esercitati e a quali benefici dovrebbero portare, nelle intenzioni dichiarate dai loro fautori. L’obiettivo centrale prospettato per il Miqualat, manco a farlo apposta, è quello di “migliorare la qualità nutrizionale del latte”, spiega il Crea nella sua presentazione, “con un’alta percentuale di molecole funzionali ad azione prebiotica e magari (“magari” non lo diciamo noi: è nel testo originario, a palesare la dimensione ipotetica del traguardo, ndr), in tal modo, favorire una ripresa dei consumi italiani”. Della serie: “andiamo avanti per tentativi, poi si vedrà”, ancora una volta.

“Il progetto”, prosegue il Crea, “consiste nell’individuazione di animali (ma guarda un po’: quelli “specializzati”, pompati oltre l’inverosimile, non sono più idonei?, ndr) che producano latte naturalmente arricchito in composti prebiotici bioattivi e principi protettivi. In particolare, viene caratterizzato il latte di alcuni tipi genetici di specie bovina, sia per la presenza di molecole funzionali con effetti benefici sulla salute umana e con una intrinseca capacità protettiva e antiossidante, sia per la minore presenza di zuccheri” (una sorta di “delattosato” all’origine, ndr).

“I primi risultati”, continua la narrazione, “hanno dimostrato che alcuni parametri misurati nel latte di diverse razze di bovini utilizzate (Frisona, Pezzata Rossa ed incroci 50/50) sono in grado di differenziarle: sia acidi grassi dalle proprietà salutari che due tipologie di acidi sialici Neu5AC e Neu5GC sono distribuiti in modo diverso tre le razze analizzate e presentano una concentrazione diversa nel corso della lattazione”.

Tra gli obiettivi, la “percezione dei consumatori”
Le ricadute attese? “Una rinnovata percezione positiva dei consumatori per un prodotto con qualità nutrizionali e funzionali alla salute umana, favorirà una ripresa del settore”, vale a dire: noi ce la mettiamo tutta per migliorare il poco di migliorabile che c’è, e poi sarà affar vostro (vi aiuteranno i pubblicitari che scenderanno in campo, di certo, ndr) persuadere gli ultimi consumatori che si tratti di un latte di gran lunga migliore.

Peccato che tutto ciò non possa stare in piedi – è evidente nel leggere questa presentazione – senza un intervento (ormai tardivo) su quanto la zootecnia intensiva abbia compromesso in una manciata di decenni nell’esasperare genetica, produttività, alimentazione, forzando oltremodo e troppo a lungo una specie oramai sfiancata (se si considerano le razze più “specializzate”), in cui le criticità fisiologiche sono ormai da tempo cronicizzate e irreversibili, stante l’insistenza a produrre quantitativi esasperati di latte.

Ipofertilità, prolassi uterini, mastiti, zoppie, acidosi ruminali – e chi più ne ha più ne metta – hanno reso le razze da latte più diffuse e specializzate (Frisona Italiana, seguita a ruota dalla Bruna Italiana), quale più, quale meno, delle grottesche caricature non tanto di ciò che furono le medesime cinquanta o quarant’anni fa (per la Bruna Italiana ci si rifaccia alla Brown Swiss introdotta negli Anni ‘80), quanto piuttosto di quel che sarebbero dovute diventare nei propositi dei loro fautori.

A tale proposito, in sostanza, gli artefici dei due progetti ci tengono a precisare che “per produrre latte di qualità occorre curare il benessere animale e allevare bovini sani”. “Negli ultimi cinquant’anni”, qui la puntualizzazione dei tecnici del Crea si fa interessante, “la pressione selettiva per la produzione di latte nei bovini ha portato ad un aumento di problematiche legate alla riproduzione, alla salute e longevità degli animali (passata dai quindici ai cinque anni di vita, dagli anni ‘70 ad oggi, ndr), con conseguente notevole perdita economica per gli allevatori” (vale a dire “ragazzi, avete tirato troppo la corda”, ndr).

Le razze specializzate sono al capolinea: è inevitabile incrociarle
“Il progetto Reddbov”, eccoci all’altra perla annunciata, “anch’esso finanziato dal Mipaaf e coordinato dal Crea, si propone di risolvere questi problemi mediante l’adozione di piani di incrocio tra razze diverse (è la “dichiarazione di fine corsa” della Frisona Italiana: la razza è al capolinea: chi non se ne fosse accorto scenda dal vapore, ndr)”.

Quindi? Quindi, addentrandoci nel “progetto” si viene a scoprire che “è stata impostata una prova sperimentale per valutare i possibili (badate bene: “possibili”, ndr) benefici dell’incrocio tra la razza da latte Frisona e la razza a duplice attitudine Pezzata Rossa. Tale prova costituisce la base di partenza per un successivo sviluppo a lungo termine (molto lungo: e quando mai arriveranno i risultati?, ndr) di ricerche necessarie alla comprensione delle basi genetiche che sottendono il fenomeno dell’eterosi (maggior vigore dell’ibrido) e alla valutazione e quantificazione di caratteri produttivi e riproduttivi”.

“I risultati: grazie alla creazione di una mandria sperimentale composta da tre gruppi di vacche”, prosegue la presentazione del Crea, “è stato dimostrato che i vitelli della razza incrociata si ammalano di meno rispetto a quelli delle razze in purezza e alcuni parametri riproduttivi evidenziano l’effetto positivo dell’eterosi (è la scoperta dell’acqua… fredda, tanto è acclarata, da anni, la questione, ndr)”.

“La mandria ottenuta”, spiegano i tecnici dell’ente, “costituisce una popolazione sperimentale di riferimento permanente, una sorta di “laboratorio vivente” capace di produrre risultati dei quali potranno beneficiare (chissà quando!, ndr) gli allevatori, qualora volessero introdurre questi schemi di incrocio nei loro allevamenti. In prospettiva, le analisi genomiche permetteranno di identificare caratteri a bassa ereditabilità quali caratteri riproduttivi e la resistenza alle malattie”.

Le conclusioni, drammatiche
Quanto sin qui letto palesa una posizione di dichiarata manleva che i ricercatori del Crea dichiarano e sottolineano di volere, di fronte a ricadute che si palesano incerte: “la resistenza alle malattie dei diversi tipi genetici” (diversi da quelli attualmente diffusi, ndr), conclude il documento del Crea, “si traduce in un minor utilizzo di medicinali per le cure e in una migliore e più salutare qualità dei prodotti di origine animale. Inoltre, quanto finora emerso indica una resa economica positiva per gli allevatori che utilizzano una razza da incrocio in grado di manifestare i caratteri positivi delle razze in purezza di partenza (prezzo di vendita dei vitelli e minori spese veterinarie)”. Il tutto, in via generale e in ogni aspetto specifico era piuttosto evidente da tempo, anche se non dichiarato.

7 dicembre 2020