
La proposta di Legambiente e CiWF (Compassion in World Farming) per un’etichettatura volontaria e trasparente su latti, carni e loro derivati, sembrerebbe matura. È quanto emerso nella conferenza stampa di martedì scorso, 9 febbraio, occasione in cui l’iniziativa – già ventilata alla fine dello scorso maggio – è stata annunciata come prossima e concreta.
La proposta vede uno scenario più favorevole rispetto a quello che avrebbe potuto avere otto mesi fa, quando il dicastero agricolo era in mano ad una ministra – Teresa Bellanova – sempre in balìa di Coldiretti e troppo incline alle logiche di Gdo e industria per lasciar spazio alle illusioni di un cambiamento. L’avvento del Governo Draghi, che porta con sé la nascita del Ministero per la transizione ecologica (che di allevamento intensivo non potrà non occuparsi) e al Mipaaf il pentastellato Stefano Patuanelli (formalmente scevro da legami con le sindacali che in sessant’anni di pressioni hanno devastato l’agricoltura italiana), sembrerebbero infondere ai proponenti qualche cauto ottimismo.

A fronte dei molti e favorevoli commenti con cui l’iniziativa è stata sin qui accolta (leggi qui e anche qui) sarà bene ora proporre una visione “altra” e più profonda, che miri meglio ad osservare la classificazione che le due associazioni avanzano. Soffermarsi alla visualizzazione di una scala cromatica che dai due eco-appaganti verdi passa per un marrone e un grigio prima giungere al nero di una zootecnia para-criminale (quella dei grandissimi numeri e delle macchine da latte) può infatti ingannare i più, facendo credere:
– che il marrone dopotutto non sia male, e che magari se spendo poco va bene anche il grigio;
– che il verde del “bio” sia migliore del verde “all’aperto”;
– che il nero esista (mentre è ai limiti della legge).
Una chiave cromatica che accontenta l’industria
Soffermandoci a valutare proprio le fasce intermedie – il livello 4 ma anche il 3 – non sarà difficile comprendere che, con poco impegno e limitati capitali, la gran parte degli allevamenti intensivi (quelli dei grandi numeri, dell’alimentazione e di una vita innaturale per le povere bestie) ce la faranno tutti a ricadere in una prospettiva di accettabilità da parte del consumatore medio. Vale a dire di chi, non cercando o non credendo nel biologico, non verrà attratto più di tanto dai verdi del 2 e dell’1.
D’altronde, ben poche aziende del lattiero-caseario oggi meriterebbero di popolare la fascia 5, per come essa è descritta (un vero e propio inferno) quindi è evidente che i proponenti abbiano tenuto conto che l’accettazione della proposta sarà ben legata alle pressioni che la politica riceverà dalle lobby industriali. Alla faccia della transizione ecologica auspicata – su cui bisognerebbe credere e spingere – e del green new deal che ci attende(rebbe).
Fare bella figura con i consumatori più che determinarsi a cambiare il corso delle cose, quindi: sembrerebbe questa la principale propensione delle due associazioni. Ce lo conferma, sull’estremo opposto della scala, la posizione di supremazia data – con lo “0” – al biologico (leggasi “biologico industriale”, ndr) sull’estensivo, targato “1”.
Di quale biologico state parlando? Di quello di mangimi e farmaci?
Stiamo parlando di un segmento produttivo sempre più ampio e affollato di industrie, interessate ad un mercato in crescita – quello del “bio” – in cui la normativa è assai poco stringente, con maglie assai larghe, ostacoli facilmente aggirabili, e per molti aspetti molto e volutamente lacunosa. Anche in questo caso l’etichettatura proposta sembra andare incontro ad una massa di consumatori che cerca un ideale sapendo poco o nulla di come quel cibo venga prodotto, fidandosi di un concetto mai troppo aderente alla naturalità che, per logica, ci si attenderebbe. Bastì pensare che nel biologico industriale un ruminante difficilmente verrà nutrito con erba e fieno né avrà libero accesso al pascolo per quello che la sua natura richiederebbe.
15 febbraio 2021