È curioso il mondo scientifico quando si mette al servizio delle imprese, della produttività, del business. Qualcuno direbbe del progresso, ma è di business che bisogna parlare, quantomeno in questo caso. Quel che stiamo per raccontarvi è stato annunciato con ampio risalto da chi può permettersi mezzi di comunicazioni adeguati: un sito internet – anzi due – e un ufficio stampa che evidentemente sa fare il suo lavoro.
I risultati sono piovuti sulle teste degli italiani attraverso decine di articoli pubblicati da altrettanti giornali, dopo che l’Ansa, giovedì 11 scorso, aveva lanciato la notizia, parlando di un “chip per produrre +10% di formaggio” (sempre di quantità si parla, ahinoi!), e – si badi bene – “di formaggio migliore” (dai mangimi è forse un formaggio migliore?). Ma cerchiamo di andare per gradi e di lasciare le nostre considerazioni a fine articolo.
Pensiamo però che il mondo scientifico, parcellizzato in mille competenze, troppo spesso si concentra a guardare il dito, trascurando sia la luna sia altre dita che puntano a quella. Guardarsi il dito per compiacersi poi di un traguardo raggiunto che non sarà universale ma specifico e in quanto tale limitato, essendo esso inerente determinate e limitate competenze: in questo caso si parla di genomica, non di altro; di conseguenza ogni affermazione andrà letta relativamente agli studi e ad un campo d’azione specifico, non certo in senso complessivo e generale.
Ma saltiamo a pie’ pari quel che racconta la su menzionata agenzia di stampa (chi abbia tempo per leggerla clicchi qui) e ciò che da lì rilanciano i giornali. E andiamo a vedere – già che stavolta il “narratore” ha un ufficio stampa coi fiocchi – cosa raccontano e come si raccontano i protagonisti.
I proponenti la notizia sono due: l’Università di Padova e l’Intermizoo – che ha sede nella stessa città veneta – ma di fatto l’ateneo non produce informazioni sul prodotto/servizio in questione, lasciando carta bianca a quello che da anni è il suo partner storico in campo zootecnico. Vediamo quindi innanzitutto cos’è l’Intermizoo.
Cos’è l’Intermizoo
“Intermizoo”, raccontano i diretti interessati, è l’”Istituto Interregionale per il Miglioramento del Patrimonio Zootecnico”, che “lavora fianco a fianco con gli allevatori dal 1974. In quasi mezzo secolo di storia, ha acquisito un know-how specifico e unico nella genetica animale”. In pratica applicano le proprie vastissime e aggiornatissime competenze nel campo della genetica e della genomica, mettendole a disposizione degli allevatori di mezzo mondo.
Chi pensi quindi che il seme “miglioratore” di toro di razza Frisona (Holstein) arrivi ancora dagli Stati Uniti e dall’Olanda, come accadeva negli Anni ‘60-‘90, è bene che riveda le sue conoscenze: grazie a Intermizoo l’Italia è da anni leader del settore, con clienti ovunque nei cinque continenti. Davvero un’azienda modello.
“Lavorando da sempre per il futuro”, spiega l’azienda sul suo sito web, “con una pianificazione e una visione di medio-lungo termine (su questo aspetto ci torniamo nelle conclusioni), e avendo concentrato (forse volevano scrivere “essendosi concentrata”?) sull’attività di allevamento e ricerca, la sua mission aziendale è oggi in prima linea rispetto ad altre aziende del settore”. A parte un italiano che non fila, il concetto è chiaro, oseremmo dire “lampante”.
Ma veniamo alla grande conquista su annunciata, per cercare di capire cosa significhi quel +10% di resa in caseificio per poi passare a decrittare l’espressione che ci ha davvero colpiti: quella di “formaggio migliore” (ammettiamo di arrivarci un po’ condizionati, pur sapendo che “ogni scarafone è bello a mamma soia” e che per vendere bisogna mettere in bella luce il dito e non la luna, a cui quasi nessuno sembra guardare, né pensare).
Bene, sempre navigando nei siti dell’azienda (è un “istituto”, ma a noi pare meglio chiamarla “azienda”), scopriamo che la chiave di volta dell’intera vicenda è racchiusa in un concetto tutt’altro che astratto: quello dell’”attitudine alla caseificazione del latte”, un fronte su cui i ricercatori di Intermizoo lavorano di certo con profitto – udite udite – dalla fine degli anni ‘90. Chi voglia saperne di più vada a leggersi le quattro pagine di dettagliatissima cronologia, cliccando qui. Poi però – vi preghiamo – tornate a seguire il nostro ragionamento.
In sostanza l’”attitudine alla caseificazione del latte” è la capacità del toro di influenzare positivamente, attraverso il suo seme (è esso il “prodotto” ovvero l’oggetto del servizio offerto, ndr), la resa lattea della vacca, tanto in termini di quantità di latte prodotto (il famoso “miglioramento” della linea latte, quindi la specializzazione che porta le vacche a produrre tanto, ma inevitabilmente a vivere di meno) quanto in termini di attitudine di quel latte alla caseificazione.
La novità si chiama “Pro Caseus”©
“Grazie alla lunga attività di ricerca applicata alla genomica”, spiega l’azienda patavina, “Intermizoo e Università di Padova hanno sviluppato Pro Caseus: l’indice genomico che consente agli allevatori di selezionare i capi con una migliore attitudine casearia”.
“Il latte prodotto da bovini Pro Caseus”, continua la narrazione, “ha una resa migliore in fase di trasformazione, e permette di ottenere una cagliata con la giusta consistenza e con tempi ottimali di lavorazione. Quando scegli animali Pro Caseus sai che stai scegliendo animali selezionati per produrre un latte di maggior valore”.
Ma non solo. “L’indice Pro Caseus”, spiega infatti l’azienda, “è l’indice genomico di attitudine casearia, brevettato dall’Università di Padova e Intermizoo, applicato alla razza Frisona (Holstein). L’attitudine casearia è la capacità del latte di reagire con un coagulante, e di formare una cagliata di consistenza idonea e nei tempi ottimali per la lavorazione”.
La narrazione va avanti (anche qui, chi voglia vada a leggere l’intera presentazione e anche di più) e ribadisce il concetto di “migliore qualità del formaggio, arrivando poi a trattare di “migliori qualità organolettiche”, “minori difetti e meno scarti” e di “un prodotto di eccelsa qualità”.
Vi risparmiamo inoltre le elucubrazioni sull’aspetto economico della faccenda, inerenti – è evidente – economie di scala industriali; cerchiamo piuttosto di arrivare al dunque, sempre con un occhio attento a due questioni strettamente legate tra loro, mai rilevanti prima quanto lo sono adesso: l’iperbolica attitudine di molte aziende ad autoincensarsi (merito o demerito di uffici stampa, vertici aziendali e proprietà: ognuno ha la sue “misura” e la sua “classe”) e la dannata postura prona (a volte talmente prona da assumere la foggia di zerbino) che i media hanno verso quelle. Terza questione, se ce lo concedete, la mancanza di competenze da parte della stragrande maggioranza dei giornalisti in questione.
Conclusioni
Diciamo questo, e torniamo a ciò che abbiamo accennato con vena critica in apertura di articolo, per sottolineare quanto uno studio scientifico – e in questo caso un’attività commerciale e di servizi – che non abbia una impostazione multidisciplinare offrirà inevitabilmente una visione parziale e incompiuta di qualsiasi scenario venga narrato.
Dove erano, quando questo progetto veniva sviluppato, agronomi, alimentaristi e veterinari che operino in coscienza rispettando la fisiologia delle bovine da latte? Dov’è oggi la naturalità del prodotto quando la scienza e la ricerca non trattano il ruminante come un erbivoro bensì come un onnivoro (l’allusione è agli insilati di mais e all’unifeed, ndr)?
Quanto valgono i termini autoelogiativi spesi in questo caso per presentare un proprio prodotto al mercato? Se “migliore” e “qualità” sono qui utilizzati a piene mani, cosa useremo per descrivere domani i formaggi d’alpeggio, fatti da sola erba? E poi, se vorremo confrontare i valori nutrizionali di formaggi fatti industrialmente con quelli che nascono da Pro Caseus, vi troveremo forse più betacarotene, più Omega3, più Cla (Acido Linoleico Coniugato) rispetto ai formaggi di animali al pascolo? No, di certo no.
Giornalisti ed editori: dov’è la vostra credibilità?
Allora si sveglino certi personaggi (pensiamo sì ai giornalisti, ma anche a chi fornisce loro le notizie) oggi toppo intenti a guardarsi dita e ombelichi (i propri e quelli di chi ha il potere di mostrarsi loro) e vadano a vivere una transumanza, a provare le fatiche e i valori di chi non ha voce ma ancora produce sì qualità, sì naturalità, sì benessere. Senza l’ossessione del business, dei fatturati, dei record produttivi ma magari con un po’ (e anche tanta) di attenzione in più (senza esservi costretti, com altri oggi sono) per il rispetto degli animali, per la biodiversità e la sostenibilità ambientale. L’immagine che quei pastori e vaccari evocano in noi è quella della malga, del pascolo, dell’erba, non certo delle monocolture di mais, della soia importata e della deforestazione che – inquietanti oggi come mai prima – sono alle spalle della zootecnia intensiva.
La transizione ecologica è nell’agenda della politica mondiale e con essa ci sono la transizione agricola e alimentare. Ricordiamo a tutta questa gente, che oggi ci racconta il business del mero profitto, e che quello asserve – giornalisti in prima fila – che il futuro ci chiede – senza possibilità di tergiversare di un giorno – un cambio totale di registro. E che l’attenzione d’ora in avanti dovrà essere prestata non ai record di produttività – di cui non ci importa nulla – ma al futuro del pianeta, che ci sta molto a cuore.
15 marzo 2021