Un periodo storico denso di cambiamenti, come quello che stiamo vivendo (transizione ecologica, transizione agroalimentare, agroecologia, etc.) porta con sé il peso di decisioni non ancora compiute dalla politica europea e mondiale, e non aiuta i consumatori a scegliere, lasciandoli nella disinformazione e nella confusione più totali.
Le bevande vegetali avanzano sul mercato, pur rimanendo prodotti di nicchia, mentre il latte alimentare (latte vaccino) perde colpi per fenomeni difficilmente reversibili (crescenti sensibilità per i diritti degli animali e rifiuto delle produzioni intensive, etc.). Le due tipologie di prodotto sono totalmente diverse, avendo nature diverse, ma molti consumatori purtroppo li percepiscono come similari e sostituiscono l’uno con le altre.
La crisi del latte vaccino porta con sé il peso di una verità da sempre taciuta dai media: non esiste un unicum qualitativo, ed i vari latti sul mercato sono assai diversi tra di loro. Se la vacca è nutrita in maniera innaturale, come nella gran parte dei casi (insilati di mais, unifeed), e vive segregata in stalla la sua aspettativa di vita non supera i 5 anni, ed il latte prodotto ha un profilo degli acidi grassi tutt’altro che raccomandabile.
Se alla vacca vengono garantiti invece un’alimentazione naturale (erba, fieno, e una minima integrazione di cereali e leguminose) e la facoltà di scegliere se stare all’aperto o in stalla durante la giornata, l’animale può vivere ben oltre i 15 anni (abbiamo visto con i nostri occhi vacche Podoliche di oltre 20 anni ancora in attività, ndr) e il suo latte avrà un corredo di nutrienti e micronutrienti straordinariamente valido dal punto di vista dell’alimentazione umana.
Se tutto questo fosse stato tenuto in considerazione in primo luogo dai Governi europeo e nazionale (che quando vogliono dispensano incentivi, orientando le produzioni come meglio credono), se si fosse valorizzato adeguatamente l’allevamento naturale, verosimilmente oggi la dissennata deriva vegan avrebbe una dimensione assai inferiore a quella raggiunta, e la spinta ideologica verso di essa non sarebbe forse neanche avvenuta.
Purtroppo però quel che conta sono le sensazioni dei consumatori – alimentate dalla pessima informazione circolante e dalla disinformazione faziosa di chi parla senza sapere cosa dice – che sempre più si spostano verso prodotti cosiddetti “alternativi”, che alternativi non sono.
In attesa che i legislatori decidano definitivamente di vietare – come sarebbe giusto che fosse – denominazioni quali “formaggio”, “ricotta”, “hamburger” a chi produce con materia prima vegetale e in laboratorio, il caos regna sovrano, e nel caos emergono le speculazioni più indecenti. E indicibili.
Quella che vi raccontiamo di seguito riguarda il mondo pastorale sardo, quindi produzioni principalmente da latte ovino (marginalmente caprino e vaccino), ma le premesse sin qui poste sono basilari per inquadrare la vicenda.
Il “caso Veghu”
Tra i vari produttori di formaggio non-formaggio presenti sul mercato, è emerso nelle ultime settimane il caso di Veghu, una startup sarda a cui le testate Vita e L’Unione Sarda hanno dedicato due articoli nel mese di aprile.
Se da un canto il primo dei due pezzi ha raccontato la genesi di questa realtà sarda in maniera corretta e con dovizia di particolari (un’azienda che verosimilmente non esisterebbe se non ci fosse stato un progetto transfrontaliero e tanti soldini pubblici per renderlo possibile), il secondo merita una drastica censura per quanto nascosto ai propri lettori, per le gravi imprecisioni contenute e per l’esaltazione spropositata di un non-fenomeno (un/a giornalista e un giornale dovrebbero limitarsi ad offrire ai propri lettori un’informazione obiettiva, non altro, ndr).
Il quotidiano sardo presenta Veghu come una sorta di miracolo imprenditoriale, parla di “cibo sperimentale” e di “un’invenzione tutta sarda” laddove produrre pseudo-formaggi partendo da “riso, mandorle, anacardi, muffe e tanto altro” non implica nessuna “arte” né tantomeno “scienza”, come l’articolo vorrebbe far credere.
Lasciar raccontare al titolare di questa azienda – tale Marcello Contu – che il suo “non-formaggio” “ha lo stesso sapore di uno tradizionale” e che ha compiuto “qualcosa di innovativo mantenendo la tradizione”, senza palesare alcun dubbio né puntualizzare alcunché è quanto di più sbagliato e grave un quotidiano – per di più sardo – avrebbe potuto fare.
Vedere questo signore indossare i panni del pastore (non essendolo affatto) per avvicinare ancor più idealmente i propri non-formaggi ai formaggi sardi, leggere sul sito della sua azienda la denominazione “Formaggi” anziché “Formaggi vegetali” (o meglio “Alternative vegetali ai formaggi”, come dovrebbe essere) lascia trapelare un approccio molto poco corretto, tipico di chi crede di poter godere di privilegi che nessuno può pensare di ottenere, per alcuna ragione al mondo.
Un’ingiuria che i pastori sardi debbono respingere
La Sardegna ha nella pastorizia il fondamento principale della sua economia; i pastori sono i primi custodi del territorio e hanno già abbastanza difficoltà per poter sostenere anche questa ingiuria.
I pastori sardi, già vessati dall’industria e dalla politica sul prezzo del latte, non avevano per nulla bisogno che l’amministrazione pubblica regionale si adoperasse per innescare questa sfida ideologica sul proprio terreno, né che un giornale letto da migliaia di pastori e dalle loro famiglie esaltasse quanto di meno esaltabile possa esistere in quella terra, né tantomeno nascondesse che l’operazione è stata voluta proprio dalla politica locale e foraggiata con i soldi pubblici.
“Com’è possibile”, Presidente Solinas e Assessore Murgia, “che i soldi per sostenere i pastori non ci siano, ma che se ne trovino per montare contro di loro un antagonista, mantenendolo per di più nella loro stessa terra?”
3 maggio 2021