
Ombre dense si aggirano da alcuni giorni, purtroppo, sul mito altoatesino del latte. Il marchio “Qualità Alto Adige” è davvero uno scudo inviolabile di protezione come abbiamo sin qui creduto, o avvicinandoci ad esso rischiamo di scoprire un semplice cancello, a maglie tanto larghe da lasciar passare autocisterne di latte da altre regioni e da altri Paesi?
Difficile dirlo, perché la confusione che circonda il latte altoatesino purtroppo ora è tanta. I dubbi sono stati sollevati con forza e ad alta voce da Andreas Leiter-Reber, deputato altoatesino e presidente del partito Die Freiheitlichen (“Il partito della libertà”), che ha posto a chi di dovere delle domande chiare e nette, ricevendo risposte poco convincenti e per nulla rassicuranti.

Domande di chi si interroga sulla provenienza di una materia prima trasformata e confezionata come “Qualità Alto Adige” (su latte, yogurt, formaggi, etc.), e più precisamente sul fatto che di autocisterne refrigerate ne arriverebbero – e non poche, sembra – da sud (Italia) e da nord (Germania). Domande che hanno lambito anche un altro aspetto non secondario della questione: la natura di quel latte.
Da cinque anni impegnati per produrre in maniera più sostenibile
La zootecnia intensiva è giunta da anni in provincia di Bolzano purtroppo (un fatto noto, se non al grande pubblico, agli addetti ai lavori): il modello padano delle grandi stalle da centinaia di capi esiste e i diretti interessati si impegnarono pubblicamente tre anni fa (nel maggio del 2018, e il nostro giornale ne parlò) a riportare il Sud Tirolo nella dimensione di una produttività al 100% ecosostenibile.

Fu allora che, in un convegno sulla zootecnia altoatesina da latte il presidente della Federazione Latterie Alto Adige, Joachim Reinalter, prese pubblicamente un impegno importante: quello di allontanare in cinque anni dal sistema latte della provincia le tendenze produttiviste che lo avevano colpito. «Puntando al latte di qualità», aveva detto Reinalter, «si colgono tutti i vantaggi del mercato, producendo più economicamente e meglio».
Al centro della strategia era stato posto il giusto rapporto tra capi allevati e foraggio disponibile: da 2 a 4 bovine per ettaro sotto i 1.250 metri di altitudine; da 1 a 3 sopra i 1.800 metri. “Equilibri che”, sottolineavamo allora, dandone notizia, “un 95% del mondo zootecnico del Sud Tirolo ha sinora rispettato”. «Il restante 5% della produzione, a cui fanno capo circa cento allevatori», aveva aggiunto Reinalter, «ha cinque anni di tempo per rientrare in questi parametri».
Ecologia sul territorio ma nelle confezioni del latte cosa?
Il nostro articolo di allora chiudeva con questo fiducioso auspicio: “La strada per il futuro sembra segnata, finalmente, in Alto Adige. Ed è una buona strada, che riporta ecologia, economia e affari sociali nel rapporto armonico che negli ultimi anni è mancato, per colpa di chi ha guardato più ai fatturati che alle buone pratiche agro-zootecniche e ambientali”.
Di quei cinque anni ne rimangono ora meno di due, per raggiungere l’auspicato traguardo, ma nel frattempo i dubbi del deputato Andreas Leiter-Reber – riferiti mercoledì 22 scorso in questo articolo del quotidiano online Salto.bz – non aiutano il sistema latte altoatesino a garantirsi un’immagine limpida e trasparente. Nel maggio del 2023 la produzione interna sarà più ecologica? Ma nel frattempo quale latte troviamo e troveremo nei prodotti altoatesini, e in particolare in quelli a marchio “Qualità Alto Adige”?

Le richieste avanzate da Leiter-Reber con una interrogazione parlamentare ben dettagliata, miravano tra l’altro ad incrociare i quantitativi di latte munti localmente con la produzione industriale totale (latte e derivati) e con quella a marchio “Qualità Alto Adige”, ma nessuno degli interessati (né l’Assessore all’Agricoltura Arnold Schuler né la direttrice dell’Associazione Latteria Alto Adige, Annemarie Kaser) ha sinora replicato con delle cifre; solo e unicamente parole. Parole a volta di comodo, a volte elusive, magari un po’ imbarazzate, ma solo parole. E nessun numero.
Tanto lapidarie quanto evanescenti le affermazioni dell’assessore Schuler, secondo cui “l’amministrazione statale (intende dire “regionale”, ndr) non ha dati o informazioni”, “le cooperative lattiero-casearie sono società puramente private, non vi è alcun obbligo per loro di fornire informazioni interne e dati alla pubblica amministrazione o al legislatore” (sic!).
Ma, ammesso e non concesso che alcuni produttori non sarebbero tenuti a dichiarare i quantitativi di latte acquistato fuori provincia, non sarebbe forse il caso – per una questione di trasparenza, e per mantenere integra l’immagine del sistema latte altoatesino – di rendere pubblici i quantitativi prodotti e acquistati, e i loro flussi, e di spiegare alla gente come riconoscere il prodotto 100% altoatesino dal prodotto che in Alto Adige viene trasformato da latte “importato” (le ombre, secondo alcuni, riguarderebbero una parte delle mozzarelle)?
Come evitare che – in questa confusione – i consumatori pensino che il buon latte dei masi dell’Alto Adige possa essere “tagliato” (nessuno può averne certezza, ma in questa situazione il dubbio è lecito) con un latte di provenienza esterna e di natura incerta (dalla Germania potrebbe essere Heumilch, ma dal resto d’Italia no di certo!)?

L’Alto Adige, volendo, può analizzare sia natura che provenienza
Per quanto concerne i legittimi dubbi sulla natura del latte utilizzato, appare necessario sottolineare l’elusività della risposta della direttrice dell’Associazione Latteria Alto Adige, Annemarie Kaser: “Questo viene fatto attraverso la documentazione, non attraverso analisi di laboratorio. Questo sistema è anche certificato da un organismo di controllo”. Affermazioni per nulla soddisfacenti né rassicuranti, che stridono dinanzi alla presenza e alla competenza che il Centro Laimburg, patrimonio altoatesino, ha dimostrato di detenere (ne parliamo in un altro articolo odierno) e potrebbe dare, se si volesse operare nella dovuta trasparenza.
Il Laimburg è un istituto di ricerca – con sede a Ora, in provincia di Bolzano – che ha di recente dimostrato le proprie avanzatissime risorse e competenze sia nell’analisi della qualità che in quella della natura dei latti (Progetto Heumilch, già presentato in un nostro articolo dell’aprile 2019) ma anche nella certificazione della provenienza degli alimenti (analisi degli isotopi dello stronzio metallico, alla pagina 5 del documento “L’Istituto di Chimica Agraria e Qualità Alimentare del Centro di Sperimentazione Laimburg“).
Conclusioni
È davvero un peccato che l’Alto Adige, pur possedendo tali straordinarie risorse scientifiche non le abbia sinora utilizzate per certificare la sostanza del proprio operato. Speriamo che, vista la situazione venutasi a creare, si determini a metterle in campo, nella necessità di spazzar via molti dubbi e di togliere ogni ombra dal proprio fare, e soprattutto dai propri prodotti.
27 settembre 2021