Latte: Catania cerca la soluzione assieme alle organizzazioni agricole

«Avremo un incontro per esaminare la situazione del mercato del latte e le sue prospettive. È una situazione delicata: in questo momento c’è un equilibrio difficile da parte delle imprese». Così il ministro dell’Agricoltura Mario Catania ha commentato l’aggravarsi della situazione del mercato del latte, annunciando per lunedì 26 prossimo una riunione al MiPAAF (sono state invitate le organizzazioni di rappresentanza degli agricoltori: ma chi rappresentano?) “per esaminare le problematiche del mercato.

 “La riunione”, hanno divulgato in queste ore le agenzie di stampa, “avrà lo scopo di esaminare la situazione attuale del mercato lattiero, le tematiche ad esso collegate, le prospettive future e le possibili soluzioni”.

«I produttori di latte», ha poi sottolineato Catania, «hanno costi molto elevati e non riescono a ripercuoterli sul prezzo di vendita, quindi bisogna vedere cosa possiamo fare e come possiamo lavorare per migliorare anche l’aggregazione dell’offerta da parte degli allevatori».

Nelle parole del ministro si intravede già la “strada maestra” da percorrere, vale a dire quella del corporativismo che sinora non ha saputo o non ha voluto andare oltre le parole. Di fronte a questa banale constatazione c’è da chiedersi cosa abbiano fatto di concreto le associazioni di categoria per elevare il latte italiano al di sopra dei valori medi del latte estero. Cosa abbiano fatto per dare concretezza ad una superiorità del “made in Italy” che risulta oramai come uno slogan vuoto oltre che sfruttato oltre ogni plausibile limite.

Che senso ha chiedere qualcosa all’industria se non si hanno armi, vale a dire se non si è legiferato per la trasparenza in etichetta? Cosa si pensa di ottenere dall’unico settore agricolo in cui mai si è tentata, neanche una volta, la via della qualità reale? Cosa fare per il mondo degli allevatori se li si è portati nel vicolo cieco delle iperproduzioni e li si è portati alla mercé di chi acquista e fa il prezzo, basando esso sui soliti quattro parametri di “grasso, proteine, cellule somatiche e carica batterica”?

Perché in altri settori dello stesso comparto – si prenda ad esempio quello del vino – si parla da oltre trent’anni di eccellenza fatta di riduzioni delle rese, valorizzazioni della biodiversità, continua competizione tra produttori di qualità reale (che nel mondo ci invidiano)?

Insistere su una zootecnia che non è capace di puntare a ben altri contenuti (Cla, betacarotene, Omega3 e tassi ben più elevati di vitamine) significa giocare una partita persa in partenza, in un mercato globale in cui il latte italiano è mediamente uguale al latte che arriva dall’estero (fatto salvo l’uso di latte in polvere che andrebbe perseguito per legge in quanto vietato) ma che con esso non può competere sul prezzo.

E allora pare che gli imperativi oggi siano un “si salvi chi può” e ancor più un “ci si salvi come si può”. E a questi pare si affidi l’ultima iniziativa lanciata in Piemonte – è notizia di queste ore – dove il governatore Cota in persona si è impegnato a reperire i dati delle importazioni zootecniche, monitorati dall’Uvac (Uffici Veterinari per gli Adempimenti degli obblighi Comunitari) in sinergia con il Ministero della Sanità.

Che senso ha cercare il pelo nell’uovo a chi produce fuori dal nostro Paese, senza curarsi più di tanto di quanto accade in casa nostra? La recriminazione strisciante verso l’industria è quella di non operare a favore del nostro comparto allevatoriale, aggrappandosi ai recenti segnali di ripresa del trasformato registrati negli ultimi mesi. Peccato che essi si fondino sulla facoltà di produrre “made in Italy” con latte straniero, come voluto e ribadito da anni dai vertici delle rappresentanze industriali. Come dice il proverbio “non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire”: che senso ha ostinarsi a chiedere?

17 novembre 2012