Ne abbiamo sentiti nel tempo di proclami sui formaggi salutistici, con le formule più varie e sempre – o quasi sempre – attendibili, e in genere affini tra di loro: alla base di ogni operazione l'alimentazione del bestiame. E alla fine dati in genere interessanti, almeno sulla carta, con nutrienti come Omega3, Cla (Acido Linoleico Coniugato), betacarotene, e vitamine (in specie la E) in quantità di gran lunga superiore ai latti e ai formaggi industriali.
"Mangiare questo tipo di formaggio combatte l'occlusione delle arterie". Lo diceva giorni fa un lancio dell'Agi (Agenzia Giornalistica Italiana) parlando dell'ultimo nato tra i vari formaggi che fanno, o che farebbero bene alla salute. Il suo nome, non ancora definitivo, è "Carciocacio", e l'allusione è chiara, trattandosi di "un formaggio a caglio vegetale (Carciofo di Pertosa), ricco (appunto) di Omega3, acidi essenziali che non sono prodotti dal nostro organismo, ma fondamentali per prevenire le patologie collegate alle arterie, come infarto e insufficienza renale", così recita la nota stampa. E sin qui tutto bene.
Va meno bene che i vantaggi derivino dalla "particolare natura del prodotto – un nuovo prodotto alimentare, che nasce dalla fusione del regno vegetale con l'allevamento zootecnico (stavolta vaccino, non ovino), pensato per intaccare l'ambiente il meno possibile" – vale a dire che anche qui, dove prima ci si orientava giustamente a mantenere le buone pratiche agronomiche di campagna (pascolo, sfalcio e foraggi polifiti, in sostanza) oggi si cerchi l'integrazione come rimedio ad una zootecnia non del tutto rurale ed estensiva (ma è quella probabilmente che gli enti locali hanno interesse a sostenere, in barba al fatto che vi si incontrino spesso razze vocate alle iperproduzioni, come la Bruna e la Frisona italiane).
Ecco, di questo ci piacerebbe che tornassero ad occuparsi i ricercatori del Cra-Zoe di Bella (Unità di ricerca per la zootecnica estensiva, in provincia di Potenza), e in effetti si occupano anche di questo, ma che lasciassero ad altri i proclami iperbolici che hanno accompagnato il fallimento commerciale di diversi altri studi (condotti da varie Università, in Toscana e in Sardegna, principalmente). Ecco, quello che è sempre mancato, nell'investire denaro pubblico per provare le varie soluzioni possibili (furono dati anche semi di lino, di per sé ricchi di Omega3, alle pecore, in due precedenti studi, negli scorsi anni) è stato il "dopo lo studio", vale a dire il condurre le aziende coinvolte in questi percorsi (in cui oramai non c'è più nulla da scoprire nella sostanza) ad affrontare il mercato, e il riprodurre quell'esperienza in dieci, cento, mille aziende agricole sane, in cui il benessere animale sia reale, la conduzione zootecnica estensiva, i foraggi locali e le integrazioni vegetali.
Per di più stavolta l'operazione, condotta in Campania – e non in Basilicata, per non aver trovato là né finanziamenti né la convinzione dell'amministrazione regionale – ha felicemente superato la fase di studio ed è approdata facilmente ai piani alti del ministero agricolo (parafrasando il detto, "non tutte le strade portano a Roma"): "insieme ad altri prodotti nati da ricerche in tema agro-alimentare", recita la nota stampa, "il Carciocacio – presentato da Vincenzo Fedele, direttore del Cra-Zoe – è stato portato all'attenzione di Mario Catania, ministro delle politiche agricole alimentari e forestali".
Come a dire che una ricerca può essere anche buona ma se non si ha il sostegno dei vertici agricoli, nel nostro Paese, il rischio è che nove volte su dieci finisca con l'impantanarsi. E allora, ce la faranno "i nostri eroi" del Cra-Zoe ad azzeccarne una sino in fondo? Chissà!
A sentire il ministro ci sarebbe da sperarlo, anche se, a certi livelli, il numero delle promesse arenate in qualche cavillo o semplicemente nel disinteresse, hanno sempre largamente surclassato quello dei successi. «Vorrei», ha detto Catania per l'occasione, «che da questa mattinata scaturisse soprattutto la passione e l'impegno che i ricercatori del Cra hanno messo in questi studi. I risultati sono frutto dell'intelligenza e dell'applicazione di uomini che oggi ricevono per la qualità del loro lavoro la gratificazione di presentare i loro lavori agli italiani».
Il progetto, avviato a Bella cinque anni fa, è poi approdato al neonato Consorzio Novorod che si occuperà praticamente di produrre in Campania e con filiera locale, realizzando anche prodotti aromatizzati con piccoli frutti locali (si parla anche di uno spalmabile con frutti di bosco degli Alburni) e con un'alimentazione animale in cui vengono utilizzati anche dei foraggi del Parco del Cilento.
In appendice un'altro sguardo sul Cra-Zoe di Bella, che ci lascia quantomeno interdetti e prelude o accompagna qualche cambiamento di direzione nell'operato del centro: la settimana scorsa l'ente è stato coinvolto in altri impegni stavolta rivolti ad una zootecnia (ancora bovine da latte, laddove la Basilicata, come le regioni limitrofe sarebbero più vocate all'allevamento ovicaprino) condotta – è stato detto in sedi ufficiali – "secondo moderni criteri tecnici e imprenditoriali" (forse che i semplici allevatori non siano degni di cotanto aggettivo?), orientata a "sostenere l'innovazione tecnologica (anche qui si guarda di buon occhio all'aumento delle rese, oramai) e l'orientamento al mercato" (primo passo verso la perdita d'identità), prevedendo "azioni che vadano oltre la dimensione aziendale" e il "maggiore vigore competitivo''. Se questo è il nuovo orientamento dell'ente, che mira ad "incrementare le dimensioni medie aziendali e della produzione media di latte per allevamento'' siamo all'atto finale: la zootecnia estensiva verrebbe accantonata anche da coloro i quali, sino a poco tempo fa, ne sono stati tra i più strenui – e forse ultimi – sostenitori.
1 dicembre 2012