Più il tempo passa, più si va verso la consultazione elettorale e più la sensazione è netta: che il mondo della politica sia interessato all'agricoltura, sì, ma solo in occasione delle campagne elettorali. Lo stato in cui versa il settore primario in Italia è davanti agli occhi di tutti e non merita ulteriori commenti rispetto a quanto da noi già denunciato, anche di recente (a chi ha poca memoria basterà leggere qui e qui e poi i vari articoli correlati). E vedere quanto siano impegnati oggigiorno i candidati dei vari partiti e partitini (Udc, ci sei ancora? ma quante belle promesse – per lo più irrealizzabili – ha fatto il "vostro" Catania nel suo tour de force agricolo-elettorale degli ultimi due mesi!?!) lascia incredulo ogni essere non appena senziente.
A sfogliare i programmi elettorali, largamente raffazzonati da contendenti più impegnati nel delegittimare gli avversari che nel proporre (si sprecano le retoriche delle filiere corte e dei chilometri zero), la sensazione, in queste settimane incentrate sulla più volgare persuasione pubblica, è sempre la stessa: ovunque ci si volti c'è retorica di facciata, improvvisazione, incompetenza. Dietro ogni singola affermazione, dietro ogni promessa. E soprattutto di fronte alle rivendicazioni di aver fatto in passato qualcosa di buono per o nel mondo agricolo. E dietro i mille silenzi che hanno sempre accompagnato un fare accondiscendente del Palazzo nei confronti dell'industria e del peggior commercio, quello che strozza il mondo dei campi.
Ancora una volta però, nella kermesse pre-elettorale, a distinguersi tra tutti è stato il numero uno dei cantastorie nazionali, colui il quale se afferma oggi qualcosa di sconveniente, insensato, incondivisibile, domani è pronto a dire che sessanta milioni di italiani lo hanno frainteso.
Tra le mille giullarate indecenti inanellate nella sua vita, quella che ha riservato al "target agricolo" (sotto elezioni i mestieranti operano di volta in volta in ragione degli obiettivi e delle strategie di vendita, come se dovessero piazzare oggi degli aspirapolvere, domani dei fondi d'investimento) la settimana scorsa, è stata forse la più penosa, ridicola, sconveniente che ci si potesse aspettare; segnale tra i segnali di un declino impietoso (le primavere sono 76, e i lifting non bastano ormai più a camuffarne il declino). Ad una platea indecorosa (in casa Coldiretti, a Roma) per l'atteggiamento di accondiscendenza mostrato, il "nostro" ha avuto il cattivo gusto di dire (citazioni tratte dal quotidiano di famiglia, Il Giornale): «Confesso di essere stato anch'io un lavoratore dei campi… Quando avevo sette anni per mantenere la famiglia, visto che mio padre era dovuto fuggire in Svizzera perché antifascista, ho munto le mucche». Brividi (ma non di freddo).
Per chi rimase di stucco già nel 2001 (ma anche per chi abboccò a quella sua favola grottesca), quando questo logoro mestierante rinvangò un proprio passato da operaio, ma anche per chi ricordi le altre boutade sui propri improbabili trascorsi da ferroviere, da cantante, da accompagnatore sulle navi da crociera in compagnia del fedele Confalonieri, ecco ora spuntare la versione agreste del Caimano. L'obiettivo? Irretire un popolo di peones con la solita pozione venefica: un mix di presunta simpatia (assai aiutata dal media da lui più amato e meglio sfruttato), fascino del potere, comoda proposta di un nuovo dux, per riportare al governo il "conductor" a cui delegare il futuro del Paese. Incubo.
Nell'attesa dell'esito di queste ormai prossime elezioni, nel pensare a quali rischi ci si prospettino per il futuro, vergognamoci ancora una volta per lui e di lui, visto che lui non conosce vergogna. E soprattutto speriamo di non andare incontro ad altri cinque anni in cui doverci vergognare sì, ma d'essere italiani.
22 febbraio 2013