La crisi della mozzarella di bufala è nella tracciabilità che manca

 È dall'inizio del mese ormai che sui giornali – cartacei e web – e sulle tv di mezza Italia rimbalza (e rischia di rimbalzare ancora sino a fine giugno) la notizia per cui la Mozzarella di Bufala Campana Dop sarebbe in crisi, ma in una crisi nera, che stavolta rischia di portare alla chiusura di decine di attività produttive, mettendo a repentaglio la vita del marchio stesso, e quella del consorzio, e portando al crollo di una delle principali economie produttive del centro-sud italiano. 

Ed è stato proprio il consorzio di tutela a lanciare la notizia attraverso un accorato appello alla mobilitazione, con tanto di lancio di petizione per salvare il più famoso dei latticini. A scatenare il problema è il decreto di attuazione della legge 205/2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 68 del 21 marzo scorso – varato per il volere dell'allora ministro Luca Zaia – che dal 1° luglio prossimo obbligherà gli operatori inseriti nel sistema di controllo della Dop a produrre Mozzarella di Bufala Campana in stabilimenti esclusivamente dedicati a quella produzione. Un provvedimento interpretato da molti come un attacco del nord leghista al sud – secondo una chiave di lettura un po' piagnona e tutta da dimostrare – ma di sicuro nato per contrastare le innumerevoli frodi con cui molti dei produttori inseriti nel "sistema mozzarella dop" hanno sinora largamente convissuto, utilizzando cagliate fuorilegge (chi straniere, chi surgelate) o tagliando il latte bufalino con latte vaccino, solo per accennare a due dei più rilevanti e diffusi espedienti dei "fuorilegge".

 

Una legge che da luglio appunto spingerà molte aziende ad abbandonare consorzio e dop, pur di continuare a produrre un assortimento di formaggi senza il quale difficilmente un produttore può riuscire a far quadrare i propri bilanci. L'alternativa, verso cui la legge sospingerebbe i caseifici, sarebbe quella di attivare una seconda linea di produzione "non dop" il cui investimento, secondo attendibili stime, si aggirerebbe tra i 200 e i 250mila euro a caseificio. Prospettiva impraticabile per i più, purtroppo.

 

E così, con il semplice slogan "Salviamo la Mozzarella di Bufala Campana Dop", affiancato da un "Sos" grafico, la petizione popolare è stata lanciata dal sito stesso del consorzio, e rilanciata da decine di testate. Per inquadrare le dimensioni del fenomeno basti pensare che già a fine marzo erano già «quarantaquattro le aziende aderenti al Consorzio di Tutela» ad aver «comunicato che dal prossimo 1° luglio non produrranno più mozzarella di bufala Dop, a causa dell'entrata in vigore delle nuove norme». Questo secondo il direttore del consorzio Antonio Lucisano, che da allora è impegnato tanto nel sentire il polso del gran malato quanto nell'aggiornare i media su questa storia all'italiana, che pur di risolvere un problema rischia di causarne altri ben più consistenti: «si tratta di aziende che rappresentano», insiste Lucisano, «il 63% della quantità di prodotto certificato».

 

«Inoltre», incalza  con un filo di speranza il direttore del consorzio, «sono tanti anche gli attestati di solidarietà che ci pervengono in queste ore. Tutti ci chiedono di fare ogni sforzo per salvaguardare il futuro di un prodotto unico. Per questo abbiamo ideato la petizione, che stiamo diffondendo innanzitutto via web, chiedendo il massimo sostegno».

 

Sin qua c'è il ritratto di una situazione critica, certo, ma anche difficile da valutare se si continua a guardarla dalla prospettiva ristretta che osserva solo i caseifici: il "sistema mozzarella di bufala" non è certo fatto solo di trasformatori ma anche di allevatori e di consumatori. Perché non ci parla di loro, il consorzio? Perché non ha mai curato i loro interessi come quelli dei trasformatori, il consorzio? Perché?

 

In sostanza, a voler guardare ora oltre le parole e le iniziative dell'ente di tutela, si scopre che, mentre la gran parte dei trasformatori si appella chi all'assessore provinciale all'agricoltura di Caserta, Stefano Giaquinto, chi al consigliere regionale delegato all'agricoltura Daniela Nugnes, chi al ministro (di un governo che non c'è), le associazioni di categoria si sono come spartite il palco recitando ognuna una parte: una mettendosi per vocazione naturale dal lato dei più grossi (e potenti), un'altra schierandosi con gli allevatori, a favore della legge sulla trasparenza, e un'altra ancora scegliendo la via di mezzo, con una proposta di modifica della legge che si riferisce giustamente ad una applicazione rigida della tracciabilità.

 

E in effetti il vero problema, il perno su cui questa complessa storia sta girando è proprio quello: la tracciabilità. La filiera bufalina soffre innanzitutto dell'atavica e cronica carenza di applicazione e di controllo delle norme basilari della tracciabilità, "in un contesto in cui", ci assicurano esponenti del mondo allevatoriale, "vengono violate con la massima leggerezza le principali normative fiscali, tanto per dirne una, con camion che viaggiano senza Ddt (Documento di Trasporto)".

 

«Oggi, in questo settore», ci confida un allevatore casertano che ha preferito rimanere anonimo pur assicurandoci di rappresentare il pensiero di molti suoi colleghi, «la tracciabilità, quella autentica, si ferma spesso al cancello dell'azienda zootecnica produttrice di latte. Appena il camion del latte varca quel cancello, finisce la tracciabilità e inizia la truffa. Ancora oggi, una buona parte dei camion viaggiano con una scheda mensile in cui viene semplicemente annotato il quantitativo di latte ritirato, ma che di valore fiscale non ha nulla. Se solo i Nas andassero più spesso nei caseifici, per fare dei controlli seri, in molti di essi troverebbero latte congelato, di cui non si sa la provenienza, e latte vaccino, che ufficialmente serve per realizzare "altri prodotti"».

 

Come se questo non bastasse, «c'è sempre il caseificio che impone all'allevatore di fatturargli più latte di quanto gliene consegna realmente, così da giustificare la provenienza di buona parte della materia prima in arrivo da altri Paesi (ad esempio dalla Romania, dove molti casalesi hanno portato bufale, o peggio, latte indiano), insomma è come cercare il classico ago nel pagliaio».

 

Di contro nell'azienda agricola, le bufale sono tutte rigidamente censite (dall'Anagrafe Nazionale Bovina e Bufalina di Teramo) e provviste di bolo ruminale (microchip elettronico inserito nello stomaco), sottoposte a doppio prelievo e analisi del sangue annuale (ogni sei mesi), e ci sono i registri ufficiali delle razioni alimentari in cui va annotato ogni componente della razione alimentare e la relativa provenienza, le analisi dell'Haccp (autocontrollo sul latte obbligatorio), il registro ufficiale di consegna giornaliera del latte, tutti vidimati dalle competenti Asl e controllati a turno da Guardia Forestale, Nas, Polizia Provinciale, Asl, e Vigili Urbani.

 

«Ecco perché la tracciabilità finisce fuori il cancello dell'azienda!», riprende il nostro interlocutore, che però rilancia: «Sarebbe bastato, anni fa, far applicare rigidamente le normative fiscali previste per inquadrare già in un certo modo il settore, ma no, niente: si è preferito come al solito, andare avanti tirando a campare, e questi sono i risultati. Ora si lamentano per la prima legge finalmente seria, senza vergognarsi di sostenere la causa della mistificazione, della poca chiarezza», utile a chi voglia perpetrare ancora frodi alimentari e commerciali ai danni del consumatore,  che più d'una volta paga per un prodotto e ne mangia un altro, «e ai danni degli allevatori, che si fanno un "mazzo" così per allevare bufale e produrre latte che poi viene sottopagato, ai danni dell'immagine del prodotto che perde la faccia e rischia di perdere l'unicità della Dop, l'unica prerogativa che ancora ci difende dall'invasione dei cinesi».

 

«Finora diversi trasformatori hanno fatto l'America sulle nostre spalle», continua il "nostro" allevatore, «si sono ingrassati speculando sul nostro lavoro, e ora che vedono in pericolo la possibilità di continuare a fare soldi facili, gli vanno le scarpe strette e strillano. Per capire questa storia sino in fondo, e per capire questi signori, basta fare un giro e vedere le condizioni in cui si presentano i loro caseifici, sfavillanti e lussuosi, e poi farne un altro, per vedere quelle delle aziende zootecniche, che cascano in pezzi, per capire come effettivamente stanno le cose. O altrimenti leggere gli attuali contratti di fornitura per apprendere che ancora oggi, nel 2013, svendiamo il latte al prezzo di tredici anni fa!»

 

E in fin dei conti le cose potrebbero cominciare davvero a marciare in modo serio ed equo per tutti. Ce lo suggerisce il professor Vincenzo Peretti, docente di Zootecnia Generale all'Università di Napoli Federico II ed esperto della specie bufalina: «La mia convinzione è che tutte le bufale che producono latte per la Dop – ma anche gli stessi tori – debbano essere iscritti al Libro Genealogico di razza». Tanto semplice quanto "difficile" (o sconveniente) da fare. Ma perché? E per chi?

 

13 aprile 2013