6 marzo 2009 – Gli allevatori di mucche da latte sono ormai in ginocchio, strozzati da una parte dall’impennata dei costi gestionali, dall’altra dal calo verticale del prezzo del latte, che oramai veleggia tra i 35 e i 32 centesimi al litro, con punte minime di 30 centesimi, registrate nei giorni scorsi in Basilicata.
Il coro degli interessati è unanime: «di questo passo non ci rimane che chiudere i battenti, perché a queste condizioni non copriamo più neanche le spese». Certo che, dal gasolio per i mezzi agricoli all’alimentazione animale, tutto è aumentato a dismisura negli ultimi mesi e come se questo non bastasse, ora «ci si mette anche il Governo con l’aumento degli oneri sanitari per i controlli, più frequenti e più rigidi di prima, e che tocca a noi stessi pagare», dicono molti degli interessati.
Ma il nemico numero uno, il dèmone contro cui tutti puntano il dito nel mondo allevatoriale è l’industria, vale a dire i grandi caseifici e le centrali del latte, che regolano la loro offerta in base ai prezzi del mercato globale. Come competere con i Paesi dell’Est, in cui la manodopera è a buon mercato e le agevolazioni comunitarie piovono senza freni?
L’accusa che sale verso il loro operato è grave: «gli industriali», si dicono convinti gli allevatori, «hanno messo su un “cartello” che specula contro di noi, acquistando all’estero latte e persino derivati del latte, utilizzati poi per produrre formaggi italiani che di tipico hanno solo l’aspetto».
L’allarme tocca quindi i consumatori: una parte dei formaggi presenti sul mercato sembrano italiani ma non lo sono del tutto, visto che per farli c’è chi utilizza persino cagliate neozelandesi e latte in polvere, che a guardar bene sarebbe destinato all’alimentazione animale. Un assurdo.
Ma è possibile che un sistema non esista per sanare una situazione come questa e che a detta di molti tocca anche il mondo delle Dop? Possibile che il consumatore italiano sia turlupinato in questo modo? Che pecorini apparentemente “made in Italy”, caciottine dall’aspetto familiare, magari in foglia di noce o sotto cenere, vengano fatti con materia prima non italiana?
Ad affrontare la situazione è ora giunto – atteso da anni – il decreto legge n. 4 del 5 febbraio sulla competitività dei prodotti alimentari. Recentemente approvato al Senato, esso sarà al varo della Camera entro il 4 di aprile. Ad accoglierlo sono state sinora le maggiori firme sindacali agricole che hanno plaudito alla svolta epocale in difesa dei consumatori e rilanciato attraverso i media i paradossi della situazione (“due buste di latte uht su tre sembrano italiane ma non lo sono”, ha tuonato giorni fa la Coldiretti da ogni dove.
Ma cosa stabilisce il decreto legge e quanto riuscirà a cambiare in questa situazione? L’articolo chiave del decreto è il sesto, sulla tracciabilità dei prodotti, e che a proposito della loro origine prevede che “nei casi in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore circa l’origine o la provenienza del prodotto alimentare, deve riportare l’indicazione del luogo di origine o provenienza”. I prodotti alimentari soggetti a vincolo d’indicazione di origine saranno determinati, relativamente a ciascuna filiera, con decreti dei Ministeri delle Politiche Agricole e dello Sviluppo Economico, “tenuto conto” – recita ancora l’articolo sei – “delle valutazioni delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative della filiera”. L’obbligo di indicazioni, con diverse modalità, riguarderà sia i prodotti trasformati che non trasformati. Per chi infrangerà la norma, sono previste sanzioni sino a 10.000 Euro (poca cosa per le grandi imprese industriali, ndr).
Inoltre, l’articolo 2 del provvedimento rafforza la tutela e la competitività dei prodotti a Denominazione di Origine Protetta, introducendo l’applicazione di sanzioni più severe rispetto a quelle sinora previste. A tale proposito, il ministro Zaia, ha sottolineato che «la prevista etichettatura guarda al consumatore e lo sostiene in una scelta consapevole e, allo stesso tempo, ha una funzione deterrente verso comportamenti scorretti che possono danneggiarlo» e rappresenta «una pari condizione per i competitor internazionali che vogliano operare sul nostro mercato».
Davanti a questo scenario, le industrie si vedono in un vicolo cieco e cercano di ribellarsi a queste prospettive. Il presidente di Federalimentare, Gian Domenico Auricchio, intervistato dal Sole 24 Ore per dire la sua, rimarca come «le imprese (i caseifici, in parole povere, ndr)… non possono farsi carico di oneri aggiuntivi pesanti (vale a dire che non vogliono pagare la differenza di prezzo tra il latte a buon mercato e il latte italiano, ndr), come quelli legati all’indicazione dell’origine geografica delle materie prime utilizzate, di cui peraltro l’Italia è largamente deficitaria». Una tesi che non sta in piedi, se solo si pensa ai problemi che il nostro Paese ha per le quote latte, e se si contano le stalle chiuse negli ultimi anni a seguito dell’offerta al ribasso dell’industria. Una teoria singolare, quella del numero uno di Federalimentare, quindi, che sulla torta delle sue affermazioni ci mette anche la ciliegina: il «made in Italy», conclude Auricchio nell’intervista, «non si basa sulle materie prime ma sulle ricette, la cultura, il lavoro degli imprenditori nazionali».
Parole pesanti come macigni che attestano, se ce ne fosse stato bisogno, la depauperazione a vantaggio dell’industria (che una sua cultura reale non ha) di infinite culture locali (quelle vere, sì, e in larga parte perdute) oramai mal riprodotte e svilite da imprese che – una volta acquisito il nome del prodotto tipico – non accettano neanche alla lontana i vincoli ai metodi tradizionali e territoriali da cui quelle ex tipicità originano.