Nell'inverno del 2012 il nome che gli fu affibbiato sembrava provvisorio, ma oggi che il suo brevetto è avvenuto, palesando mancanza di fantasia nei suoi stessi promotori, non ci resta che rassegnarci all'idea di "convivere", d'ora in avanti, con una denominazione a nostro avviso poco felice. Stiamo parlando del "Carciocacio": il "formaggio che non c'era" è così nato ufficialmente, in provincia di Salerno, a un anno e mezzo dall'inizio delle attività di un gruppo di lavoro interdisciplinare, con il sostegno del Piano di Sviluppo Rurale campano. Sua peculiarità più evidente, l'uso del Carciofo bianco di Pertosa (Presidio Slow Food) quale agente coagulante.
Pur sforzandoci di trascurare alcuni eccessi manifestatisi attorno alla sua presentazione (sul sito web dedicato ai progetti "Psr" il prodotto viene definito "un po' formaggio e un po' carciofo", ndr), davanti ai più marchiani errori compiuti nel raccontarlo non riusciamo a trattener la penna. A sorprenderci oltremodo non è un errore qualsiasi sull'ultimo dei foodblog, bensì due vere e proprie castronerie (consentiteci il termine, ché son davvero grosse, ndr) pubblicate sul sito del Fatto Quotidiano. Oltre a presentarlo già dal titolo come un formaggio della Basilicata (accade a chi legga con eccessiva sufficienza i comunicati stampa), la versione web del quotidiano diretto dalla coppia Padellaro-Travaglio si dice certa che il prodotto sarebbe (testuali parole) "pronto ad arrivare sulle tavole di vegetariani e vegani", accomunando gli uni agli altri, come se le differenze tra questi e quelli fossero di barba caprina.
Doppio lo sconcerto, poi, nel notare che il testo sia stato curato da una "firma" del settore che, per quanto pseudonimo – puntarellarossa – parrebbe scrivere regolarmente di cibo e sembrerebbe assai seguita sia sul proprio omonimo blog sia sui social network. Oltre il marchiano errore che porterà stavolta ai suoi lettori più ilarità che confusione, il dubbio che ci resta non è tanto sulla credibilità della sua autrice – che oggi invero scema – quanto sulla superficialità che trapela da esso, e che torna a farci riflettere su come in Italia cibo e agricoltura vengano trattati spesso con eccessiva leggerezza.
Tornando al Carciocacio in sé, nulla e nessuno riesce a confutare in noi i dubbi che già esprimemmo alla presentazione del progetto (leggi qui): può un'operazione condotta su una zootecnia non estensiva – per quanto "migliorata" – portare a prodotti che dal punto di vista nutrizionale dovrebbero essere preferiti ad altri? Il principale interrogativo sorge spontaneo leggendo che il progetto "Novorod" (all'interno del quale il Carciocacio è nato) si occupa (testuali parole) di "Validazione di nuove produzioni casearie e di alimenti zootecnici in grado di migliorare la qualità globale del sistema vacca da latte". Laddove quindi le vacche siano allevate in stalla e non al pascolo, è forse apprezzabile che se ne producano derivati che debbono alle integrazioni le specificità finali del prodotto (acidi grassi Omega 3, antiossidanti, acido linoleico Cla, etc.)? Come differenziare questi dai derivati del latte prodotti dal pascolamento e dall'alimentazione foraggera del territorio? Siamo certi che i nutrienti nobili presenti negli uni e negli altri siano equivalenti? Siamo sicuri che animali allevati in un modo o nell'altro conoscano il medesimo benessere animale?
16 giugno 2014