Uno sguardo oltre i confini della nostra decadente Europa farà bene a chi vuole capire le tendenze future, quantomeno di chi alla qualità reale preferisca i volumi sostenuti a suon di genetica e di alimentazioni forzate. L'ultimo segnale che fa presagire buio pesto a medio termine è arrivato la settimana scorsa dalla Nuova Zelanda e per la precisione dal numero uno del mercato mondiale del settore, la cooperativa Fonterra, che ha annunciato ulteriori cali del prezzo di acquisto: dai 5,30-4,70 dollari neozelandesi (3,50-3,10€) per chilo di sostanza secca del dicembre scorso ai 4,50-4,40 (3,00-2,90€) previsti già nelle prossime settimane.
"I mercati globali sono caratterizzati da un'eccedenza di latte", ha fatto sapere attraverso il proprio ufficio stampa il presidente di Fonterra, John Wilson. "Questo squilibrio è conseguente alle buone condizioni di produzione della maggior parte delle regioni lattiere e ci condurrà verso una difficile stagione". Fonterra, che è il più grande produttore di latte del mondo, influenza con l'andamento dei propri prezzi il commercio di latte mondiale.
Mentre in Europa si registrano dichiarazioni di qualche leggerezza, anche e soprattutto da parte della classe politica e dei vertici di aziende che a noi potrebbero sembrare di riferimento, un mercato che si trova a segnalare delle anomalie apparentemente difficili da spiegare è quello argentino, dove l'associazione degli esercenti commercianti medio-piccoli – Almaceneros – ha lanciato un allarme che al momento non ha trovato alcuna risposta ufficiale: "Perché esistono i marchi di latte di seconda scelta?"
Da qualche tempo il latte di marchi come Armonia, Rodriguense, Santa Brigida e Chelita non arrivano che a Buenos Aires. Perché? E perché le grandi aziende confezionano il proprio latte con due e anche tre identità diverse, per altrettante fasce di prezzo? L'ipotesi avanzata dall'associazione è che all'interno delle confezioni i latti siano identici tra di loro, e che il motivo per cui la proposta è così diversificata risiede unicamente nella necessità di catturare mercati con diverso potere d'acquisto attraverso un nome, una grafica e una presentazione più o meno accattivanti.
"Le aziende lattiero-casearie leader del mercato", afferma Almaceneros in un suo comunicato, "hanno deciso di concentrare i prodotti più economici principalmente nella città di Buenos Aires e nelle sue periferie". "La loro decisione di non consegnare i marchi di seconda scelta in altre città come Cordoba, non lascia scelta alle famiglie, obbligandole ad acquistare i prodotti più costosi ", ha concluso l'associazione.
La situazione, che ha iniziato a manifestarsi nei mesi scorsi, si è ora aggravata (interi scaffali risultano perennemente vuoti), e "il rischio prossimo", dicono gli esperti argentini, "è che la forbice dei prezzi tra i prodotti di fascia media e quelli di fascia alta si allarghi sino a raggiungere anche il 35%.
Povera Italia!
In Italia nel frattempo, tanto per non raccontar come stanno le cose, ci si continua a crogiolare tra impalpabili messaggi di tiepido ottimismo (Martina ad Agronotizie: "Ci vorrà tempo ma la filiera verrà riorganizzata") e la disillusa speranza che qualcosa possa davvero cambiare (Pitruzzella all'Ansa: "Antitrust apre indagine conoscitiva") tra il mondo della produzione e il mercato. Nulla quindi che faccia intravedere la benché minima propensione a voler davvero cambiare alcunché.
Una cosa di sicuro non accade: nessuno mette in discussione un modello fallimentare – quello delle stalle intensive – che oltre ad offrire prodotti di scarsa qualità e a significare una pesante ricaduta ambientale non potrà mai competere sul piano in cui è stato posto, quello della globalizzazione. A salvarsi – è ormai evidente – saranno unicamente le aziende che hanno legato e legheranno la loro attività al proprio territorio, acquisendo a suon di sacrifici l'unico elemento di differenza e superiorità: quello della vera tipicità territoriale.
8 giugno 2015