Capre e pecore in stalla: è così che Granarolo farà business

Capre in stabulazione. Quale legame con il territorio se non sono al pascolo? - foto White Lies©“Una filiera del latte di capra per gonfiare il fatturato annuo e strizzare un occhio all’export”. È con queste parole che martedì scorso 6 ottobre il quotidiano L’Unione Sarda online ha dato notizia dell’ennesimo progetto espansionistico di Granarolo, ancora una volta operato sulla base di una zootecnia stabulata, che costringe gli animali ad essere nutriti in modo discutibile, quantomeno se si vuol parlare di qualità reale.

L’operazione, accompagnata dalla solita retorica della valorizzazione e dell’ottimizzazione, trova terreno fertile in Sardegna attraverso la proposta di una visione tanto parziale quanto sostenuta da enti locali e faccendieri d’ogni sorta. Una proposta che mette in evidenza i soli aspetti economici ed espansionistici: dall’aumentata produttività (per gli allevatori qualche soldino in più) al numero di nuove stalle (non si vive di soli numeri), all’incremento dei capi (da 3 a 8mila), al cosiddetto “rafforzamento delle filiera” (più forte per chi?) alla “valorizzazione dei prodotti tipici regionali”.

Una stalla per capre: bella a vedersi, forse. Molto meno per loro a vivere chiuse, senza poter pascolareSul concetto di tipicità, che è stato speso a gran forza nel presentare il progetto, si fa sempre più difficile pensare a cosa di tipico potranno avere dei prodotti derivati da animali che anziché pascolare verranno alimentati a mangimi. Una proposta che in definitiva appare carente sugli aspetti dei valori nutraceutici (che sono nel pascolo), della qualità reale (che ne deriva), della valorizzazione del territorio, del rispetto di una cultura agropastorale che proprio attraverso operazioni come questa si sta irrimediabilmente perdendo.

In Toscana è il lupo l’alleato dell’industria
Ma Granarolo non si ferma qui. L’azienda, che appena due anni fa era impegnata a dare l’assalto all’ambiente molisano con il progetto “Gran Manze” (leggi qui e qui) sta operando altre attività che rischiano di stravolgere la zootecnia ovina toscana. Utilizzando caseifici ormai decotti (come accadde nella stessa Sardegna nel 2012, con l’acquisizione della Ferruccio Podda) e cavalcando strumenti finanziari regionali (i Pif, Piani Integrati di Filiera) l’azienda bolognese va ora avanti col coltello tra i denti.

Fortunatamente qualcuno che prova a contrastare la strategia espansionistica dell’industria felsinea c’è, come è accaduto nel grossetano, dove l’ultima riunione con i pastori – organizzata dalla Cia mercoledì scorso – è servita ad aprire gli occhi ai diretti interessati, che in misura assai marginale hanno poi aderito ad un’analogo appuntamento convocato dalla Granarolo per il giorno seguente.

Dove la zootecnia è sana – è evidente – la preoccupazione, ovunque si profili l’ombra dell’industria è la medesima: quella di dover rinchiudere gli animali in stalla, e di doverli mettere in produzione tutto l’anno (la Gdo i prodotti li vuole sempre, in barba ai cicli naturali di produzione, ndr). Un’opzione che purtroppo e per molti versi si combina bene con la necessità di proteggere i capi dal lupo e dai suoi ibridi: giovedì scorso ancora una mattanza di pecore. L’ennesima strage di ovini e l’esasperazione dei pastori in Maremma hanno creato condizioni ideali per la svolta produttivista.

Se il comparto saprà resistere al peggio dipenderà anche da ciascuno di noi: se avete un amico pastore tenetevelo stretto, comprate i suoi prodotti (non costeranno mai troppo, se si valuta l’aspetto nutraceutico, ndr) e fate sì che la sua azienda rimanga in vita. Produrrà formaggi salutari anche per i vostri figli.

12 ottobre 2015