Il fallimento della politica italiana sul fronte della valorizzazione e della tutela del latte è confermato giorno dopo giorno da un’infinità di accadimenti, nazionali e regionali. Da qualche tempo a questa parte, ad esempio, i quotidiani locali riferiscono di iniziative tese a comunicare ai consumatori di un determinato territorio la superiorità (presunta) del latte prodotto localmente. Che sia fatto nutrendo le vacche con mangimi sembra un aspetto marginale per chi lancia certe iniziative. E che in tempo di crisi molti produttori abbiano tagliato i costi (anche quelli destinati all’alimentazione delle vacche) e aumentato le rese (senza aumentare il numero dei capi), pare non interessi nessuno.
A volte, come accade in Trentino, chi sostiene certe tesi si appella all’iconografia delle terre alte e a tanta bella (ma vuota) retorica: “latte prodotto della montagna”. Sì, vabbé, ma fatto come? Il come il consumatore non deve chiederselo. Allo stesso modo in cui abbiamo (spesso impropriamente) pensato che “italiano è meglio”, ora ognuno penserà che “trentino, lombardo, friulano, ligure, piemontese è meglio”.
“Tanto”, immaginano gli artefici di certe iniziative, “la gran parte dei consumatori non pensa più di tanto. Però agisce, che è quel che più conta. E se sullo scaffale gli facciamo trovare l’etichetta della sua regione lui prenderà quello”. Se poi ciò non accade, va bene uguale: per faccendieri e politici che oggi si sbracciano nel difendere i propri allevatori, l’importante è farlo. E soprattutto fare in modo che i giornali raccontino che loro hanno fatto “qualcosa”.
E pensare che in Piemonte esiste un latte “dell’erba”
Dopo che in questa insana giostra si sono esibite diverse altre regioni, ecco che nei giorni scorsi è stata la volta del Piemonte. Il copione all’incirca è lo stesso; gli attori diversi ma un po’ uguali a tutti gli altri. Le premesse? Beh, il mondo del latte sta attraversando un momento di profondo malessere, gli industriali e i produttori firmano intese di carta straccia, tant’è che i caseifici non le rispettano quasi mai.
La paura diffusa è che con l’avvio della nuova campagna, il 1° aprile prossimo, qualcuno giochi un pessimo pesce agli allevatori, e che le tensioni si possano riaccendere. In Piemonte, si sa, si guarda sempre con un occhio particolare alla Francia, modello d’ispirazione quasi mai raggiunto per tanti versi nel mondo del latte. E il vedere che di là dal confine gli allevatori sono di nuovo sulle barricate porta molti a pensare che le cose non andranno per il verso giusto neanche da noi.
È certo però che in Italia le confederazioni agricole si guardano bene dal sottolineare che i produttori d’oltralpe – riuniti spesso in cooperative di base – sono in fermento: non sia mai che qualche allevatore dei nostri si dovesse accorgere che i colleghi francesi sono assai meglio rappresentati rispetto a loro. Da noi niente proteste: da si preferisce non guardare, e far altro. O forse nulla. Nel nostro Paese troppi produttori di latte si chiedono cosa si aspetti a fare qualcosa. Senza capire che le “nostre sindacali” son troppo vicine al Palazzo per fare alcunché in grado di superare la sceneggiata. Perché – pensateci bene – gli sterili blocchi alle dogane e le inguardabili mungiture nelle piazze cittadine, altro non sono che sceneggiate, e della peggior fatta.
È così allora che in questi giorni si legge che, “col pieno sostegno degli allevatori” (in realtà è quello delle associazioni, che si arrogano il diritto di parlare per conto dei loro iscritti, ndr), “la Regione Piemonte intende istituire un marchio informativo che individua e rende evidenti quei prodotti che usano il latte munto con le nostre vacche, siano essi formaggi Dop o altre produzioni dei caseifici”, per cercare di far “riconoscere al latte “made in Piemonte” un prezzo superiore a quello attualmente pagato agli allevatori”.
“L’iniziativa della Regione”, si dice a destra e a manca “è lodevole, la direzione quella giusta”. Le argomentazioni addotte per sostenere questo si rifanno a incomprensibili apprezzamenti del prodotto locale in quanto tale; senza alcun riferimento a presunte ragioni che possano avere un nesso con la qualità reale: di alimentazione delle bovine nessuno dice nulla, di zootecnia estensiva meno che mai. Al più, in qualche consesso di addetti ai lavori, qualcuno tornerà a parlare di grassi e proteine, prima o poi. Di carica batterica e cellule somatiche, giammai di Omega3 e Cla, di betacarotene e vitamine, perché quelli sono nell’erba, che nessuno più usa, o quasi più nessuno.
A dire il vero qualcuno in Piemonte però la strada da seguire l’ha indicata di già, agli allevatori che volessero cavarsi dai guai, e quel qualcuno – esempio unico in Piemonte e in tutto il Nord Italia, che si spera venga prima o poi seguito, è Cascina Roseleto di Villastellone, a sud di Torino. Difficile pensare che in Regione non sappiano di loro, difficile credere che altri soggetti della filiera piemontese non li conoscano. Problematico però sarebbe, per tutti gli attori della scena dire ad altri allevatori “seguite il loro esempio”: sarebbe come sostenere di averli fatti sbagliare per decenni. Più facile fare gli struzzi e non guardare. E così, in un mercato regionale che attende impaziente il nuovo marchio del latte piemontese, a noi piace pensare che alcuni consumatori, e sempre in numero maggiore, un marchio di garanzia ce l’abbiamo di già: quello di Cascina Roseleto e delle sue due gelaterie (una in paese, una a Torino), che da un mese a questa parte, oltre al gelato, al latte alimentare (Latte Nobile), e agli yogurt, propone formaggi freschi di incomparabile bontà. Sia per il palato che per la salute.
15 febbraio 2016