«La cooperazione è un fattore di crescita da non trascurare, importante per le aziende della Sardegna che vogliono approdare nei mercati esteri e intraprendere un percorso di internazionalizzazione». Ad affermarlo, in occasione del workshop “L’agroalimentare sardo e i nuovi mercati”, tenutosi all’interno della 2a Borsa internazionale delle imprese italo-arabe di Cagliari, è stato Salvatore Pala, presidente dell’Unione dei Pastori di Nurri, una delle realtà produttive più coinvolte in attività commerciali con il mondo arabo.
L’azienda, che nel 2015 ha fatturato 22 milioni di euro, trasformando il latte ovino e caprino di 730 conferitori, deve badare ai numeri, è ovvio, e a gestire al meglio – non sempre è facile – una materia prima prodotta da così tanti allevatori e pastori, per produrre il meglio che si può. Lo sa bene Pala, che sottolinea come «la qualità non basta: per esportare occorre conoscenza dei Paesi nei quali si vuole investire e capacità di adeguare il proprio prodotto ai gusti dei consumatori stranieri».
Un’idea giusta, forse, sul piano delle vendite e del mercato; a patto che non venga applicata sempre e comunque. Come, allo stesso modo, non può essere accolto senza riserve l’altro concetto, espresso da Pala: «L’altra sfida è quella dell’innovazione e della ricerca, della formazione e del sapere».
Opinioni espresse con toni un po’ troppo perentori, probabilmente: come se ogni mercato fosse uguale all’altro. E per di più come se le nostre culture (non solo gastronomiche) non fossero state capaci di conquistare un’infinità di mercati nel mondo e nei secoli. Peccato che qualcuno decida di gettare alle ortiche un pezzo di “made in Italy” in questo modo. A cominciare dalla spensierata apertura della Sardegna alle razze Assaf, Lacon (ovine) e Murciana (caprina), allevate in stalla, non più al pascolo.
A guardarlo bene però, quello del presidente dei pastori di Nurri è un discorso con molti punti di contatto con le intenzioni di chi iniziava ad auspicare – all’inizio degli anni Duemila – una “internazionalizzazione” dei grandi vini italiani (includendo vitigni come Merlot e Sirah al Barolo e al Brunello di Montalcino, ndr) per andare incontro a gusti diversi dal nostro. Quell’idea, si sa, in parte attecchì, in parte no, senza però stravolgere del tutto il mondo del vino di qualità. Speriamo che la parte buona del settore lattiero-caseario – soprattutto quella che il formaggio lo fa partendo dal suo latte – sappia resistere a certe discutibili sirene.
7 marzo 2016