Purtroppo, ed è cosa ormai palese, con le aflatossine del latte noi italiani siamo abituati a convivere. E non solo attraverso le cronache dei giornali ma pagandone le conseguenze in termini di salute. Da anni ormai esse giungono sulle nostre tavole all'interno di prodotti alimentari più o meno noti e garantiti, prevalentemente – e qui sta il paradosso – in quelli di cui dovremmo più fidarci, perché supercontrollati, e a Denominazione di Origine Protetta.
Nel giugno del 2013 toccò a Renato Zampa, allevatore in Pagnacco, provincia di Udine, finire in galera per le aflatossine nel latte. Zampa, leader dei Cospalat friulani, se la cavò con due settimane di detenzione, poi neanche un anno e mezzo di domiciliari, grazie al patteggiamento. Mettere a rischio la salute pubblica in Italia può costare assai poco: lo sanno bene gli altri sedici imputati in quel caso, che se la cavarono con pene di pochi mesi: dalla segretaria di Zampa, Stefania Botto (falsa documentazione) a Dragan Stepanovic, capo degli autisti (che coordinava la miscelazione con latte buono, per rientrare nei limiti di legge), a Paola Binutti, socio accomandatario de "Il Laboratorio Sas" di Udine (taroccava le analisi), a Gabriella Mainardis, biologa, e Cinzia Bulfon, tecnico di laboratorio alla Microlab di Amaro, dove i livelli delle aflatossine erano attentamente controllati. E sottaciuti.
In quel caso il latte fuorilegge veniva trasformato in Montasio Dop. Al caseificio Toniolo Casearia di Selva del Montello, alla latteria di Cavolano di Sacile, al caseificio Latte Vivo di Tavagnacco. Il gip a cui fu affidato il caso, Roberto Venditti, sottolineò la spregiudicatezza e la disinvoltura con cui la banda continuò a delinquere, anche dopo le ispezioni del Nas, mostrando un "palese disinteresse verso il bene della salute pubblica, ancor più riprovevole laddove si pensi che il latte costituisce il principale alimento per l'infanzia".
Sempre nel 2013, ma con un'evidenza dei fatti che si palesò solo nel giugno del 2014, l'altro caso eclatante accadde nel parmense e riguardò la Dop casearia più famosa che c'è: anche qui le indagini coinvolsero il sistema dei controlli, e le forme di Parmigiano Reggiano sequestrate furono duemila. A finire agli arresti domiciliari furono tre allevatori e nientepopodimeno che il direttore del Centro Servizi per l’Agroalimentare di Parma "Bizzozero", Sandro Sandri. Nel febbraio scorso la Procura di Parma ha chiesto il rinvio a giudizio per lui e per altri ventotto indagati per un traffico di certificazioni falsificate, che si sono rese "necessarie" per permettere ad alcuni caseifici di utilizzare ingenti partite di latte contaminato da aflatossine. "Un latte che", scrivemmo allora, "avrebbe dovuto essere avviato alla distruzione, in quanto genotossico e cancerogeno".
E ora? Ora che il direttore del consorzio del Grana Padano, Stefano Berni, promette il pugno di ferro per i trasgressori («Chi non si è attenuto alle regole dovrà risponderne in Tribunale per il danno d'immagine e per i danni commerciali», ndr), il mantra pubblico di chi si chiama fuori invoca la punizione esemplare per i produttori e i trasformatori che hanno fatto i furbi: "bisogna isolare le poche mele marce", viene detto da più parti, anche se ormai è evidente che non si tratta di pochi e che il sistema dell'illecito è diffuso. Un sistema che coinvolge non solo allevatori alla canna del gas e caseifici che ci sguazzano nel comperare latte tossico a 8 centesimi al litro, ma anche tanti ma tanti "colletti bianchi" e strutture che dovrebbero controllare e denunciare. E che invece colludono, facendo carte false.
Pochi, davvero pochi, nel gran parlare di queste settimane, quelli che si sono interessati dei danni per la salute pubblica più che di immagine e danni commerciali, dal momento che le aflatossine in questione sono fortemente cancerogene, e che il consumo di latte in determinate fasce della popolazione è quantomeno frequente, se non quotidiano.
Purtroppo, ed è qui l'aspetto più critico della vicenda "bresciana", ad essere coinvolto – e pesantemente – è l’Istituto Zooprofilattico della Lombardia e dell'Emilia Romagna: un ente pubblico che svolge anche funzioni di laboratorio privato. Le indagini degli inquirenti hanno messo in luce oltre trecento analisi con aflatossine fuori dai limiti di legge: trecento casi in cui chi avrebbe dovuto denunciare ha deciso di tacere. Non un caso isolato bensì un ben collaudato sistema di coperture a danno dei consumatori, e della salute pubblica. In sostanza, di volta in volta, sia gli allevatori che i caseifici facevano effettuare le analisi per sapere quanto latte "pulito" sarebbe servito per far rientrare nella norma il latte fuorilegge. Una situazione che – a suon di decine di euro ad analisi – gonfiava le casse di un istituto in cui in molti hanno avuto le bocche cucite: dall'ultimo tecnico di laboratorio ai diversi dirigenti. La domanda spontanea è ora una: "di chi ci possiamo fidare?"
In attesa che qualcuno risponda a questo annoso quesito, ecco che iniziano a trapelare i primi nomi di aziende coinvolte nell'indagine bresciana: dalla Ca.Bre di Verolanuova (sequestrate 4mila forme, principalmente di Grana Padano ma anche di Provolone, che sul mercato è finito, avendo una stagionatura di appena un mese, ndr) alla Solat di Leno (Brescia), dalle Fattorie Padane di Treviglio (Bergamo) ad un caseificio di Spino D’Adda (Cremona) di cui, almeno per ora, non è trapelato il nome.
E ora? Ora ci piacerebbe sapere della loro espulsione dal Consorzio di Tutela del Grana Padano, ma nutriamo serissimi dubbi che questo possa accadere. La parola torna al consorzio, che più che parole è chiamato a compiere fatti.
4 aprile 2016