Quello genovese del latte è solo in parte il paradigma dell’attuale crisi del settore. Una crisi che gli allevatori stanno attraversando da anni, e che dal 1° aprile del 2015 ha iniziato a mordere più forte, a partire dalla fine delle quote latte. Un fenomeno che in Italia ha comportato profondi cambiamenti, legando le sue ragioni di fondo ad un’impennata della produzione globale, che – a fronte di una diminuita richiesta di mercato – ha trascinato il prezzo alla stalla sempre più verso il basso; per di più in concomitanza con gli ennesimi aumenti dei costi di gestione e produzione. E sotto la spinta delle maggiori produzioni a buon mercato provenienti dall’Europa del Nord e dell’Est.
Come se ciò non bastasse, ecco così che si registra una tendenza sempre più diffusa e preoccupante, che ritroviamo nella cronaca nera (latte alle aflatossine, ndr) e che sembra emergenza senza esserlo: molti allevatori, giunti ormai alla disperazione, cercano in tutti i modi di abbassare i costi (ricorrendo a mangimi-spazzatura, ndr) e di incrementare le produzioni (in casi estremi, con l’uso illegale di somatotropina, ndr). Tanto il sistema dei controlli si è visto quanto bene funzioni.
Il caso genovese
Dicevamo però della vicenda genovese: per certi versi paradigma, per altri eccezione nel panorama di settore, straordinarietà difficilmente ripetibile altrove. Negli accadimenti registrati nella principale delle province liguri ritroviamo il caso eccezionale in cui alla prevaricazione industriale (la Parmalat che interrompe il rapporto che la legava a sessanta allevatori della Val Polcevera, ndr) sfociata nel plateale sversamento di ettolitri di latte da parte dei produttori, si sono contrapposti il tamtam dei social media, una solidarietà diffusa che non si registrava da tempo, e il forte sostegno dei vessati da parte della gente, del popolo, della cittadinanza. Accompagnato dal boicottaggio del prepotente di turno, che mai potrà piacere più che a pochi. E che ancor meno lascerà i più indifferenti.
Ecco allora che, da una storia nata male, dalla disperazione di chi getta il frutto del proprio lavoro – e con esso un genere di primaria importanza qual è il latte – si è giunti presto al reperimento di un acquirente di quel latte (un caseificio piemontese, ndr) che, per quanto temporaneo, si è rivelato decisivo per riorganizzare le fila di chi il latte lo produce. E poi all’invito all’acquisto del prodotto sfuso, alla spina, locale e crudo, da parte degli amministratori locali. Un’iniziativa che al gran successo di vendita ha aggiunto un rilevante risultato mediatico, grazie anche al governatore ligure Giovanni Toti, che il latte crudo lo ha acquistato, assieme a tanta altra gente. Per poi berlo, tal quale, davanti ai fotografi schierati a immortalarlo, mentre – forse non cosciente della cosa – contravveniva l’obbligo di bollitura imposto dalla legge.
Come se tutto ciò non fosse bastato, ecco che ieri, domenica 17 aprile, dopo l’appello dei dipendenti Parmalat, dichiaratisi “a rischio disoccupazione“ (potrebbero rivolgere i loro appelli al proprio datore di lavoro, invitandolo ad una condotta più etica, ndr) complice il rito della messa, uno dei parroci cittadini – Don Valentino Porcile – ha inscenato un’estemporanea vendita di genovesissimi formaggi sul sagrato della chiesa, vendendo tutto in breve tempo e ricevendo persino il plauso dell’arcivescovo Bagnasco. Niente di meglio per arricchire le cronache dei quotidiani locali, che seguono la vicenda passo dopo passo e ad ogni stormir di fronda.
Il paradosso “pugliese”
E così, come se tutto questo non fosse bastato a rendere quello genovese un caso più unico che raro, ecco che attorno all’evoluzione del medesimo emergono palesi alcuni paradossi assai curiosi, primo fra tutti quello di un salvatore piemontese che troppo spesso sembra compiacersi per una denominazione aziendale che lo fa sembrare pugliese, non solo di nome, ma anche di fatto. Curioso è certo pensare che, partendo da un latte ligure, circolerà presto del formaggio piemontese che ai più, all’apparenza, sembrerà prodotto nel tacco d’Italia. Come per una bizzarra legge del contrappasso, esistono diverse analogie tra questo aspetto della vicenda e il comportamento dei dispotici industriali che, forti di un nome palesemente parmigiano e di una proprietà tutta francese, vorrebbero vendere ai liguri latte straniero facendolo passare per locale.
Globalizzazione e vuoti luoghi comuni
Tutto questo, cari lettori, ha il senso della farsa: una farsa in cui larghissima parte del mondo del latte, nei Paesi industrializzati, si trova a giocare una partita impari, per quella che appare come un’unica e universale debolezza: quella di chi, allevatore, ha accettato, non più tardi di sessant’anni fa, o forse più di recente, di barattare il certo per l’incerto; di mutuare l’identità di un’alimentazione locale, fatta di erba e fieno (è lì la qualità e la biodiversità, non nei mangimi) con l’inevitabile globalizzazione di un cibo, il mais (e l’unifeed), uguale per tutti sempre e comunque. Perché? Per qualche litro in più? Per arricchire un’industria che poi li avrebbe pugnalati? Ne è valsa la forse pena?
Essersi fatti trascinare nel campo di una tale globalizzazione (con animali globalizzati, Frisone o Brune che siano, e un’alimentazione globalizzata, il silo-mais e l’unifeed) ha indebolito i deboli, rendendoli schiavi. Schiavi di un mercato in cui un latte non-più-genovese (se non di nome) poteva essere barattato, chissà da quanti anni, con un latte spesso identico se non migliore, per quanto proveniente dall’estero. E ad un prezzo assai più vantaggioso per l’industria.
Orsù, si metta ora da parte la vuota retorica del “made in Italy”, già che il meglio è di chi produce al meglio, sia esso in Italia in Germania, Francia o Moravia. Quel che rende superiore un latte – e con esso i suoi derivati – è, e non potrebbe essere altrimenti, l’alimentazione delle bovine e il loro benessere: una vita in stalla o al pascolo (semi)brado? Il resto conta zero, ed è l’unico zero che abbia un senso. Enormemente più del coldirettiamo “chilometro zero”, che – oltre i vuoti luoghi comuni e la sterile retorica, è evidente – non conta né mai ha contato più di zero, per l’appunto.
18 aprile 2016
Clicca qui se vuoi vedere il governatore della Liguria Giovanni Toti che beve il latte crudo dalla bottiglia, contravvenendo la legge sull’obbligo della bollitura