Il ministro Martina ci va cauto ad esprimersi: quando pensa alla necessità di calmierare la produzione di latte, in Italia, riconducendola al livello della decrescente domanda di mercato, pare non voler parlare più di "tagli" o di "riduzioni" ma di "necessità di gestire la produzione". Si badi bene: il problema è europeo, anzi mondiale. Non esiste Paese in cui la sferzata della crisi non si sia fatta sentire. E ovunque si prospetta la necessità di ridurre. E se ne parla fuori dai denti.
Qui da noi si preferisce mettere in bell'evidenza quanto il Governo ha fatto in questo ultimo anno ("Abbiamo mobilitato 120 milioni di aiuti straordinari diretti più 600 milioni con i tagli a Imu e Irap approvati nella legge di stabilità. Siamo uno dei governi Ue che ha investito di più. Abbiamo concordato con l'Abi una moratoria di 30 mesi sui mutui") per sostenere il comparto aggiungendo che "ora andremo a Bruxelles, con Francia, Germania e Spagna per puntare a nuovi strumenti comunitari, per gestire la produzione".
Strumenti di cui da qualche tempo si parla: sono i concetti tanto cari al Commissario europeo all’agricoltura, Phil Hogan, che spinge per la riduzione della produzione, che inevitabilmente verrà operata incentivando le aziende a ridurre il numero delle bovine da latte, vale a dire inducendo molti piccoli alla chiusura.
A detta di Martina la questione è anche un'altra, perché la «la filiera del latte si deve organizzare di più. Oggi come oggi nel settore c'è ancora troppa frammentazione. Va superata questa debolezza strutturale. Servono più organizzazioni di produttori, più cooperative». Un'idea che non guarda in faccia nessuno. Meno che mai le piccole stalle, siano esse in pianura o in territori marginali. Chissà se un giorno si terrà conto anche del presidio dei territori, e della necessità di sviluppare una zootecnia sostenibile e di qualità reale.
Martina guarda avanti, guarda dove ci sono "i numeri" e la sostanza: «Dove esistono consorzi come Grana Padano e Parmigiano Reggiano», dice il ministro, «il sistema funziona meglio e si autoregola. La madre di tutte le questioni è aiutare a lavorare insieme quel 40% di latte italiano che non va in formaggi Dop» e l'idea è quella delle aggregazioni. Ma non solo: «Le regole», sottolinea il numero uno del Mipaaf, «ci sono. Le abbiamo approvate con la legge 91 che fissa i requisiti per la creazione di un organo interprofessionale, come accade nei Paesi più evoluti. Un posto dove si incontrano tutti i protagonisti di filiera e dove non si parla solo di prezzi ma delle decisioni necessarie al comparto per sfuggire alla crisi. Gli strumenti sono sul tavolo. I protagonisti di questo mondo devono imparare ora a usarli».
Se queste sono le premesse per alleggerire lo strapotere dell'industria e della Gdo sul mondo agricolo, ben venga. Ma si faccia qualcosa di concreto per chi sulla propria tavola vuole del cibo davvero sano e in grado di nutrire (dove sono gli Omega3, il betacarotene, gli antiossidanti se non nei prodotti "dell'erba e del fieno"?), non di preoccupare. Ne gioverebbe anche il mondo agricolo più autentico. Quello che si è saputo tenere lontano dalle logiche industriali. Quello che in molti vorremmo venisse valorizzato di più.
6 giugno 2016