I rappresentanti di alcune organizzazioni agricole sarebbero stati ricevuti di recente dai vertici della Galbani, trovando un’intesa di massima sul prezzo del latte per i prossimi mesi. Ne ha dato notizia la stampa, quasi in sordina, giovedì scorso 15 settembre dalle pagine del sito web Agronotizie, precisando che l’accordo prevede “fino alla fine dell’anno un trend rialzista” che potrebbe portare il prezzo dai recenti 29,50€/cent per litro (vendere sotto costo, ndr) ai 34 (una miseria, ndr) del prossimo dicembre, attraverso una soluzione analoga a quella praticata in Francia (ne abbiamo dato conto lunedì 5 settembre, ndr) dalla casa madre Lactalis, di cui Galbani fa parte.
E mentre gli Stati Uniti si preparano a celebrare a Los Angeles (23-25 settembre) proprio con Galbani la 15esima edizione del Cheese Italian Feast of San Gennaro (già il nome è tutto un programma, ma ad andar nel dettaglio c’è da rimanere di stucco), vale a dire la festa di un’italianità molto presunta, qui in Italia il famoso marchio di cui avevamo fiducia non va oltre i pochi spicci che regalano più speranza che sostanza ad un comparto ormai in ginocchio. L’accordo avrà breve durata, e questo aspetto dell’intesa – si dice – dovrebbe essere utile ad entrambe le parti, per via di una ripresa globale appena accennata, caratterizzata da continue oscillazioni, ma anche e soprattutto dalla volatilità dei mercati.
E così, mentre in settimana da Strasburgo il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker si è interrogato platealmente – senza riuscire a darsi una risposta – sui motivi per cui il latte costa meno dell’acqua (leggi qui l’articolo “Vi spiego le stranezze del mercato del latte in Europa”, di Giancarlo Salemi su Formiche.net), ecco che il guru di Slow Food Carlin Petrini dalle pagine delLa Repubblica riesce a sorprendere più di chiunque altro, rivendicando primati che il “made in Italy” non sempre ha ed entrando in un teatrale contraddittorio con il suo amico Oscar Farinetti, reo di aver recentemente assunto (e non che sia una novità, ndr) posizioni neoliberiste e favorevoli all’uso di materie prime estere.
Nell’intervista (di Ettore Livini, leggi qui) il fondatore dell’associazione braidese mostra di aver smarrito la verve e l’acutezza che lo hanno caratterizzato in stagioni migliori di quella odierna. Perde l’occasione per puntualizzare che per fare un buon latte servano una buona alimentazione e un reale benessere animale, e si lancia in un generico apprezzamento del Dop italiane. Come se non sapesse che buona parte di quelle vengono prodotte con latti di animali allevati in regime di zootecnia intensiva, costretti a vivere la loro (breve) vita reclusi in stalla, spinti da un’alimentazione (principalmente insilati di mais) da cui non può certo derivare il miglior latte possibile.
Mai come oggi il mercato del latte appare allo sbando, e anche chi un tempo aveva avuto idee almeno in parte condivisibili non appare più in grado di combattere una battaglia univoca e sacrosanta al fianco degli ultimi produttori legati alla qualità reale. E a indicare nella riconversione da intensivo ad estensivo la strada per tornare a fare qualità reale. Per quanto certe divergenze appaiano palesi tra i vari personaggi di questo italico teatrino, le ragioni del commercio e della finanza non potranno che livellare eventuali divergenze, le quali, più che di sostanza, ci appaiono di facciata.
19 settembre 2016