La scorsa settimana avevamo "bacchettato" il lassismo con cui Carlin Petrini si era espresso sulla situazione del latte italiano. Nel titolo dell'articolo – "Galbani spadroneggia, Carlin indietreggia" – avevamo sottolineato quanto le posizioni recentemente assunte dal fondatore di Slow Food si erano ammorbidite, arrivando ad accettare la palesemente menzognera linea secondo cui "made in Italy" sarebbe di per sé sinonimo di qualità, e la qualità legata al mondo delle Dop. Posizioni comode per la grande e media industria, posizioni che danneggiano il mondo rurale e i contadini. Alla faccia di Terra Madre, e dei Ribelli del Botto.
Tutti, a nostro avviso, potrebbero asserire il ritornello coldirettiamno tranne chi per decenni si è battuto per sostenere le produzioni dei diversi pascoli, dei diversi verdi e armenti di calviniana memoria. I "segreti di lavorazione tramandati nei secoli" che Italo Calvino decanta nel suo Palomar, nulla hanno a vedere con i volumi e le standardizzazioni industriali che oggi piacciono a Petrini, con le alimentazioni che sottendono le produzioni smodate, spinte dalla genetica e aiutate dai mangimi. Nulla a che vedere con i diversi verdi dell'erba bensì con il verde cupo di chi cerca i record delle vendite, in Italia e soprattutto all'estero, ora che qui da noi la crisi morde.
Eccoci quindi a parlare di nuovo del Carlin, ma non per insistere, non per mancanza di notizie a cui dedicare la nostra attenzione, bensì per una coincidenza che forse coincidenza non è. Perché a poca distanza di tempo da quelle argomentazioni (rilasciate ad Ettore Livini delLa Repubblica, sotto forma di intervista) in pieno stile coldirettiano, ecco che Petrini diventa un uomo-Coldiretti, per quanto solo a titolo onorario. E di quale onore si tratti è difficile capire i contorni e la sostanza. O forse troppo facile per essere accettato davvero da una parte della moltitudine pensante del "cibo lento".
Questioni politiche che forse sfuggono alla nostra logica, fatto sta che Petrini – è notizia del secondo giorno di Salone del Gusto – "è stato nominato", recitano le agenzie di stampa, "presidente onorario di Campagna Amica", la più vasta rete di vendita diretta del mondo agricolo. Una vendita orchestrata dalla più grande confederazione nazionale del settore. Una rete fatta per chi accetta di sottostare ai vincoli stabiliti dalla confederazione: obbligo di tenuta della contabilità in un Caf giallo, obbligo di cappellino giallo, bandiere gialle, gazebo gialli e, di tanto in tanto, qualche manifestazioni di regime al Brennero o a Piazza Montecitorio, più per le telecamere delle tivù che per cambiare le cose.
Il regime agricolo è servito, la barca va – continua a veleggiare – e da oggi ha un nuovo paladino mediatico, che salendo in poppa accetta di giocare giochi di regime tanto sconvenienti quanto palese dovrebbe essere la divergenza tra il dire (suo) e il fare (loro). Che palese sarà sempre meno in futuro, accettando con una tale nomina, le vuote logiche del chilometro zero (la più evidente menzogna inculcata nel menti vuote di molti italiani negli ultimi dieci anni) e della filiera corta, le false verità di giovani convertiti alla pastorizia e di questo povero "made in Italy" sempre meno sostenibile e difendibile (dove sono i legami al territorio, con i mangimi? dove le culture identitarie se si accetta così facendo la strada per la globalizzazione?).
Per chi non conosca i mali perpetrati al mondo del latte proprio dalla Coldiretti, tornerà buona la lettura di un un nostro articolo a firma Roberto Rubino, intitolato "*Il* problema del latte si chiama Coldiretti. E ora vi spiego il perché", che inchioda la prima (per dimensioni) confederazione agricola italiana, assieme all'Aia (Associazione Italiana Allevatori) sulla deriva della genetica animale operata negli ultimi cinquanta anni nel nostro Paese. Allora, mentre Slow Food nasceva, per combattere sì l'insorgenza del fast food, si palesavano già i primi contraccolpi di quel fare. A partire da quell'erosione genetica che ha marginalizzato – se non addirittura spazzato via – decine di razze animali da reddito che avevano impiegato migliaia di anni a conformarsi alle non poche differenze orografiche, climatiche, vegetali del nostro sempre più impoverito Paese.
Se è vero com'è vero che la politica entra nel piatto in cui mangiamo – e c'entra sempre più palesemente – è ancor più vero che la politica sa entrare, attraverso queste manovre, dove mai dovrebbe. Non è detto che debba accadere, né per forza né per necessità. Accadrà più facilmente però se qualcuno le avrà lasciato – come adesso – la porta non sbarrata ma socchiusa. E non per distrazione.
26 settembre 2016