La Lombardia del latte tenta di uscire dalla crisi con un marchio difficile da coniare

    Per chi conosca bene il nostro settore e il vero buon latte che nutre e fa bene, sentir parlare di Villastellone è un tutt'uno col pensare a Cascina Roseleto, l'azienda virtuosa che da tre anni a questa parte ha riconvertito la propria zootecnia da intensiva a estensiva. L'azienda condotta da Claudia Masera, che nel 2013 – grazie al supporto dell'Università di Torino – ha trasformato i propri 24 ettari di coltivazioni di mais in un'estesa prateria per le proprie bovine da latte. Ventiquattro ettari in cui meno di trenta capi, tra vacche e manze – secondo i dettami delle pratiche zootecniche virtuose – sono tornate in piena libertà: libertà di muoversi, libertà di scegliere quali erbe brucare, per produrre non quantità smodate bensì qualità reale.

E così, si resta un (bel) po' perplessi a leggere che proprio nella cittadina quindici chilometri a sud di Torino sulla strada per Carmagnola, una delegazione di allevatori provenienti dalla Lombardia siano andati in visita,  mercoledì scorso 28 settembre, in un'azienda, in cui la pratica zootecnica è ancora fondata sull'alimentazione a base di mais e unifeed. Un'azienda scelta per questa trasferta degli allevatori lombardi – capeggiata dall'assessore Gianni Fava – in missione per toccare con mano i primi esiti dell'iniziativa "Piemunto", il marchio di "garanzia" della provenienza del latte, destinato ai tanti consumatori che si sentono rassicurati non nel sapere "come" un latte è prodotto (cosa mangia l'animale) bensì "dove" è prodotto.

   La linea guida (chilometro zero, filiera corta) imposta ormai da anni dalla Coldiretti e assunta acriticamente dalla gran parte dei consumatori è stata fatta propria anche dalla Cia che questa iniziativa transregionale ha voluto e organizzato. Iniziativa che ha visto l'assessore agricolo del Piemonte, Giorgio Ferrero fare gli onori di casa, e rilasciare assieme al suo collega lombardo le inevitabili dichiarazioni di rito agli organi di stampa presenti. Dichiarazioni che hanno riguardato principalmente il successo che il brand "Piemunto" sta trovando sul mercato, sostenendo ancor oggi una zootecnia industriale (700 le vacche dell'azienda ospitante) che di virtuoso ha ben poco.

Di fronte alle dichiarazioni di Fava – che ha elogiato l'iniziativa piemontese – non può non balenare l'evidenza che la zootecnia lombarda non abbia nulla da invidiare a quella del Piemonte, che le due realtà regionali siano basate su pari logiche produttive e gestionali e che l'unica differenza tra le due sta nel fatto che in un caso il lessico sia venuto fortunosamente incontro agli uni (Piemonte, "ai piedi del monte" riadattato in "munto in Piemonte") e che appaia assai meno favorevole agli altri. Quale marchio o logo adotteranno i creativi che il Pirellone ingaggerà per la bisogna è assai difficile da prevedere. Quanto è difficile pensare che ne possa uscire qualcosa di buono.

La prospettiva che per uscire dalla crisi ci si debba affidare non alla riconversione verso la qualità reale (gli erbivori erba debbono mangiare, non mais e mangimi) ma ad una serie di marchi e di azioni di marketing la dice lunga sulla possibilità che i consumatori riescano in un prossimo futuro a reperire sul mercato un latte degno di soddisfare le migliori aspettative e, al tempo stesso, di offrire loro quei valori nutraceutici (Omega 3, Cla. betacarotene, vitamine, etc.) che solo i nuovi latti virtuosi, al pari del latte di una volta, sono in grado di garantire.

3 ottobre 2016