A Giampaolo Ormezzano vanno tutta la mia stima e tutto il mio rispetto, per vari e importanti motivi. Il rispetto per l’età, ché una volta attraversate così tante primavere – 81 le sue – è dovuto a prescindere; la stima per la lunga e brillante carriera che ha accompagnato l’ultimo periodo aureo dell’Italia pallonara, da piemontese e torinista doc, nella scia del mito della leggendaria compagine granata. Per questo e altro ancora, tanto di cappello dinanzi al giornalista sportivo Ormezzano.
Quel che mi riesce meno, a partire da oggi, è il nascondergli un po’ di biasimo per essersi voluto occupare di latte, giorni addietro (sul quotidiano La Stampa di Torino), senza averne la necessaria preparazione. E dicendo – me lo consenta la suddetta stima – una sequela di castronerie (ma il pezzo, un elzeviro, qualcuna la poteva anche richiedere, nda) che la metà sarebbero anche bastate.
Ormezzano, che dev’essersi imbattuto nella corsia del fresco di qualche Carrefur torinese rimanendo colpito dalle dimensioni e dalla varietà dell’offerta, esordisce chiedendo al lettore di che latte esso sia. Domanda vanesia, è evidente, che dà il la al fantasioso sciorinamento di un’infinità di latti (bio, bassa digeribilità, etc.) e al loro – spesso improbabile – contrario (non-bio, bassa digeribilità, etc.).
Ma cosa muove la penna del noto giornalista, se non il suo iniziale stupore? Perché non approfondire la materia, prima di lanciarsi nella scrittura, se poi si rischia di rimanere in superficie, senza incidere neanche un po’? Perché parlare di un “gusto di buona acqua bianchiccia” e di un prodotto “pressoché identico, quasi sempre” se ciò non risponde al vero? In sostanza, per quale motivo, alla soglia degli 82 anni, fare tutta questa disinformazione, e perdere l’occasione per raccontarla giusta?
Domande destinate a rimanere senza risposta, forse, a differenza dei molti dubbi che circondano e circonderanno il mondo del latte. Dubbi a cui proveremo a dare risposta noi qui, già adesso e d’ora in avanti, cimentandoci sul latte quanto Ormezzano si è cimentato sul calcio. Stando come lui sempre e comunque dalla parte di chi le partite le vince, senza mai un “aiutino”. Mai con l’Assolatte-Juve, per intenderci (si fa per dire; non se ne offendano gli industriali del settore, che ad ogni modo attingono da stalle industriali), e sempre al fianco di chi quella straordinaria bevanda la produce davvero nel massimo rispetto per l’ecosistema, per gli animali allevati, e per il consumatore.
L’Italia degli aiutini e delle furbate
L’aiutino più grande in questo mondo del latte venne riservato dall’arbitro delle italiche normative all’industria, quando il concetto di “qualità” fu concesso – a sproposito – per definire “elevata” la presenza di grassi e proteine, ma anche l’igiene (carica batterica) e la sanità del latte (cellule somatiche). Quattro fattori merceologici sulla cui base il latte alla stalla viene valutato e acquistato trascurando i valori più importanti (quelli nutraceutici: grassi insaturi, antiossidanti, vitamine, etc.) sulla cui base il consumatore dovrebbe scegliere un latte piuttosto che un altro. Iniziativa biasimabile fu quella certo, tanto quanto lo è oggi la licenza che alcuni imprenditori azzardano nel tentativo di sdoganamento dalle proprie mediocrità, inserendo impunemente aggettivi qualitativi nel nome della propria azienda.
Immaginate allora nel tempo quanto dovrebbe inculcarsi nella testa del consumatore medio un nome che suonasse come “Selezioni di Eccellenza”, o “Compagnia della Bontà”: denominazioni licenziose che palesemente abusano di concetti positivi senza che nessuno sia lì a misurarli quei valori e quei concetti, sempre evocati e mai dimostrati. “Irricevibile” l’una (la concessione), irricevibile l’altra (la licenza), tanto quanto lo è il lavoro (indecente) di quel noto stagionatore subalpino che da anni racconta – a chi vuole crederci – che nella sua bottega tutto ciò che riluce è oro. Anche gli specchietti per le allodole.
Le chiacchiere allora stanno a zero: oltre il libero divertissement di Ormezzano, quel che più conta, e su cui più vale la pena soffermarci oggi, è la necessità per il consumatore di aprire gli occhi; di spalancarli di fronte ad un mercato in cui – oltre alla sovrabbondanza della proposta – inizia a stagliarsi la palese disonestà di qualche ipotetico paladino del Cla (Acido Linoleico Coniugato) e del beta-carotene che la racconta molto poco bene la sua favoletta.
I super-latti dei super-cantastorie
Guardiamoli bene oggi quei banchi-frigo sterminati che hanno catturato l’attenzione di Ormezzano. Guardiamoli con attenzione perché vi spunteranno, prima o poi, i latti dei cantastorie. Latti solo apparentemente rispondenti ad una determinata natura (da mucche alimentate a fieno, come una volta) ma profondamente difformi uno dall’altro. Difformi perché prodotti all’interno di una filiera assai poco organizzata e molto parcellizzata, assai poco educata (a produrre qualità reale) e troppo tollerata (da chi dovrebbe far rispettare i metodi di produzione). Latti che solo in teoria dovrebbero rispondere a dettami rigorosi ma quasi mai rispettati da chi produce la materia prima.
I latti di domani
C’è poco da fare, ci risiamo: sul latte il consumatore apra bene gli occhi, già oggi come ieri, e ancor più lo faccia domani. Apra gli occhi, legga, e aguzzi l’ingegno e la memoria; si tenga informato, cerchi di capire e di guardare, oltre agli aggettivi attribuiti senza merito (la famosa “alta qualità” di cui sopra), oltre i termini abusati senza un controllo. E imparando a leggere le analisi che in passato abbiamo pubblicato e spiegato anche in profondità, proprio per educare chi – anziché subirlo – il mercato dovrebbe farlo: i consumatori, per l’appunto. Quelli di domani.
Stefano Mariotti
13 febbraio 2017