Nasce la filiera del latte del Lazio. Lo raccontano in questi giorni tanti giornali e agenzie di stampa, con grande enfasi. Perché nasce puntando innanzitutto alla comunicazione: dotandosi di un bel sito internet, e di una ancor più bella campagna di comunicazione, diretta – ovviamente – ai consumatori. Il tutto all’interno di un progetto che oltre al suo altisonante nome – “Filiera del latte del Lazio” – porta poco di nuovo nelle stalle, sul piano delle buone pratiche zootecniche e della qualità reale del prodotto.
Nel Lazio come in Piemonte (ne parlammo un anno fa di questi tempi), ancora una volta le corporazioni coinvolgono i produttori(1) attorno a progetti aggregativi e di comunicazione che puntano fortemente a salvare il salvabile in questo grave momento di crisi (del prezzo del latte e dei consumi). Progetti che non riescono a risolvere (e forse neanche ci pensano) le problematiche che sono alla base di una zootecnia intensiva che più di tanto non può fare: grassi, proteine, carica batterica, cellule somatiche sono ok, ma su quel che conta davvero – i valori nutraceutici – neanche un accenno. Perché per introdurre quelli – quindi per portare il latte ad un rapporto Omega6/Omega3 buono (sotto il 2,5) o ottimo (sotto il 2; e non fatevi raccontare fandonie ignobili: un valore tra 4 e 5 non è affatto buono, ndr) – servirebbe una rivoluzione che nessuno vuol fare: bisognerebbe passare per davvero dagli insilati e dagli unifeed ai fieni (sani, oltre che polifiti) e all’erba (brucata fresca nel pascolo). Bisognerebbe avere praterie adatte o quantomeno terreni adibiti a sfalcio. Bisognerebbe avere una cultura della fienagione, che non è, purtroppo, di quelle zone se le si contrappone a territori vocati come la Baviera, il Tirolo, la Bretagna, il Piemonte.
Questioni che al Centro-Sud non sono proponibili, neanche volendo, perché non ricevibili in quanto estranee ad una zootecnia che sa produrre sì del buon latte, ma di pecora e di capra (sempre che siano al pascolo), fermo restando che come in Abruzzo anche nel Lazio ci si potrebbe – in via quantomeno teorica – cimentare nell’allevamento della parca vacca Podolica, da cui ricavare straordinari formaggi e latticini con valori nutraceutici più che apprezzabili. A partire dal Caciocavallo Podolico, che – senza una Dop – lo si potrebbe produrre ovunque, sempre che si volesse puntare a fare qualità reale anche nel settore del latte vaccino.
A leggere quello che in questi giorni riferisce la stampa c’è da rimanere sgomenti, se qualcosa di zootecnia si capisce, per la determinazione ad usare più le belle suggestioni che i fatti concreti. Perché si parla di “nutrizione” e di “territorio” – con la compiacenza di media mai abbastanza documentati né critici. Quale nutrizione se si punta solo ai soliti quattro valori merceologici suddetti (grassi, proteine, cellule somatiche, carica batterica)? E quale valorizzazione dei territori, se le vacche vivono in stalla?
Ovviamente, come in tutti i progetti a valenza prevalentemente mediatica, sono stati reclutati fior di esperti, attraverso la cui reputazione il consumatore si dovrà sentire garantito: dal cattedratico straniero (il Prof. Arne Astrup dell’Università di Copenaghen) al presidente della Società Italiana di Scienza dell’Alimentazione (Prof. Antonio Migliaccio), dall’emerito docente di allergologia e immunologia clinica (Prof. Ferdinando Aiuti) al luminare di pediatria (Dott. Giorgio Pitzalis del FIMP), al direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico di Lazio e Toscana (Dott. Ugo della Marta). Si badi bene: tutti illustrissimi e stimabilissimi esperti, ma vedrete che andando ad analizzare le loro asserzioni troveremo tantissime volte termini soggetti ad essere interpretati – come “qualità”, ma cos’è la qualità? chi di voi, o quale giornale per vostro conto l’ha mai misurata? – e nessuna affermazione circoscritta sui reali benefici prodotti dai nutrienti del latte, o per meglio dire dai suoi valori nutraceutici. Questo perché anche la bovina da latte – come noi esseri umani – è ciò che mangia, e se mangia mangime (insilato o unifeed che sia) e non erba (o fieni polifiti) i valori nutreaceutici di quel latte non potranno mai essere particolarmente utili a chi se ne alimenti.
Detto ciò, si possono apprezzare, per quello che sono, tante delle affermazioni contenute nell’attività mediatica che ha portato agli articoli in circolazione da alcuni giorni. Innanzitutto che “la riduzione dei volumi di latte è stata del 6% l’anno negli ultimi due anni, in cinque anni si è perso circa un quarto del mercato, e il consumo di latte procapite è sceso da 52 a 47 kg a persona. E non solo per la crisi economica”, così come affermano i promotori della campagna, che proseguono: “le ragioni di questa diminuzione dei consumi sono state inizialmente imputate a una maggiore propensione al risparmio delle famiglie impoverite dalla crisi, più attente a calmierare l’acquisto di prodotti freschi per prevenire i possibili sprechi legati alla loro deperibilità. In seguito sono intervenuti nuovi fattori, come la diversificazione delle abitudini legate alla prima colazione e la progressiva demonizzazione del latte fresco, identificato in maniera crescente come fonte di allergie”.
“Nel calo di consumi”, prosegue il messaggio dei promotori del progetto, “il Lazio non fa eccezioni, anche se rimane un mercato molto vivace perché da solo assorbe il 10% della domanda italiana di latte fresco. Nel 2016 la flessione dei consumi è stata superiore alla media nazionale, sia per il latte fresco (-7,%), sia per il latte Uht (-4%)”.
«La valorizzazione del latte fresco», ha sottolineato poi l’assessore all’Agricoltura, Caccia e Pesca della Regione, Carlo Hausmann, «è essenziale per garantire un futuro al sistema della zootecnia del Lazio». «Gli strumenti scelti dall’accordo di filiera lattiero-casearia», ha proseguito l’assessore, «sono molto importanti, sia per costruire delle solide basi di educazione alimentare, facendo recuperare alla produzione del latte di qualità un giusto spazio di mercato, sia per rafforzare il legame tra i territori e il prodotto latte attraverso la creazione della “Strada del latte e dei formaggi” permanente nel Lazio».
«Grazie a questo accordo, inoltre», ha concluso Hausmann, «si arricchisce l’importanza delle fattorie didattiche che potranno proporre ai consumatori non soltanto visite aziendali, ma veri e propri momenti di educazione alla conoscenza del latte e all’importanza della qualità e tracciabilità del prodotto».
Quindi si badi bene: si parte dal problema centrale che non è l’educare i consumatori a consumare il meglio ed aiutarli a reperire quello sul mercato, bensì il risollevare le aziende dalla crisi, sostenendo azioni che riportino il consumatore a fare quello che gli si è sempre stato chiesto di fare: consumare, e zitto.
“Il progetto di filiera” (che, precisano i suoi promotori è “aperto a nuove adesioni”) “impegna le aziende agricole partecipanti al rispetto rigoroso dei requisiti sanitari per la produzione del latte crudo” (vale a dire che rispettino la legislazione vigente: ci mancherebbe che non lo facessero, ndr), “così come delle norme sul benessere animale” (con animali in stalla una vita: erbivori alimentati largamente a mangimi, ndr), “e disciplina l’introduzione di riferimenti territoriali in etichetta da parte delle industrie della trasformazione, sia per il latte fresco convenzionale, di alta qualità” (merceologica, ndr) “e biologico a proprio marchio, sia sui prodotti caseari e derivati del latte”.
“Inoltre”, prosegue la presentazione del progetto, “il documento fissa un piano di azioni da sviluppare congiuntamente per informare il consumatore e orientarlo verso una scelta di acquisto consapevole (di cosa?, ndr) mediante l’attivazione di strumenti di comunicazione finanziati direttamente dagli stessi soggetti promotori della campagna. C’è un sito web – www.filieralattelazio.it – che rappresenta una guida digitale per scoprire le virtù alimentari del latte fresco” (da zootecnia intensiva, ndr).
“Per rilanciare il consumo di latte”, sottolineano gli organizzatori, “verrà avviata una campagna di comunicazione con lo slogan “Filiera Latte del Lazio. Buono, per tutti”. Come avvenuto già in Piemonte, quindi, questo del Lazio è un progetto fortemente incentrato sulla comunicazione, dove però i piemontesi hanno avuto dalla loro la fortuna di un’assonanza – tra Piemonte e “Piemunto” (il loro nuovo marchio regionale) – che ha, e avrà sempre più, il pregio di entrare nella testa dei consumatori.
Per chi sa informarsi, ovviamente, il buon latte è altrove: non in una regione o nell’altra, ma in ogni azienda zootecnica estensiva in cui alla base della propria produzione ci siano l’erba, l’erba e l’erba. Perché le vacche – non ce lo dimentichiamo mai – sono ruminanti, e se qualcuno ha provato a riconvertirle ad ignobili mangimi, non è riuscito affatto nel suo intento, visto che il latte da alimento nutriente e valido che era (sino all’avvento della zootecnia intensiva, ndr) è entrato – da alcune decine di anni – nel novero degli alimenti a cui sono state imputate tante problematiche dei nostri tempi, sia dal punto di vista nutrizionale che agroecologico.
(1) Centrale del Latte di Roma, Fattoria Latte Sano, Ipa Latte di Nepi, Centrale del Latte di Rieti a cui si aggiungono le principali Cooperative di raccolta latte, in rappresentanza di circa 450 aziende agricole, ovviamente ben sostenuti dalle maggiori organizzazioni agricole regionali, dalla Cia alla Coldiretti alla Confagricoltura, e da Unindustria Lazio