L’associazione CiWF (Compassion in Word Farming) costruisce la sua reputazione anche attraverso la critica, anche quando i progetti – in fieri o in itinere che siano – hanno buone basi, o premesse. “Si può fare di più”, dicono. Certo, vero: di più e meglio, nel concreto o anche solo a parole. Di sicuro però, quando sei nella dimensione del moderno allevare, sai anche che i limiti e i problemi esistono e dovrai accettare di conviverci.
Difficile – se non impossibile – coniugare il concetto di benessere animale reale (gli animali non dovrebbero vivere segregati una vita, nutriti a mangime, suvvia!) con quello di zootecnia intensiva. E allora la partita, non praticabile sul piano dell’agire concreto, la si va a giocare su quello della comunicazione. E della persuasione più o meno occulta. Alla faccia di chi alleva in maniera estensiva. E del consumatore che continua a non sapere, a sbagliare, a fidarsi di un sistema assai poco corretto. Se non del tutto corrotto.
Ma andiamo per gradi: a guardar bene – lo si capisce sempre più dall’incalzante battage promozionale in atto – il sistema industriale, che gli allevamenti intensivi ha voluto, e da quegli allevamenti attinge latte (e/o carne, ndr), vede il suo concetto di “benessere animale” più come un’opportunità di raccontarsi “buono pulito e giusto” che come una precondizione per produrre qualità reale.
Ciò che ogni industria cerca oggi è l’occasione per promuovere le proprie produzioni con argomenti efficaci, che arrivino diretti al cuore dei consumatori.
Con le vendite di latte in progressivo calo, e il popolo degli animalisti e dei vegani sempre più incalzanti sulle coscienze della gente, il tema del benessere animale è l’arma di persuasione di massa del momento. Fateci caso: le vacche sono segregate a vita e vengono alimentate contro natura (insilati di mais e unifeed, non erba e fieno), e il sistema industriale che fa? Ci propone argomenti marginali come se fossero universali e fondanti: fa caldo? Bene, allora l’industria ci racconta dei ventilatori – che rinfrescano le stalle – e ci propone l’idea di animali felici e liberi (le 5 libertà narrate da CiWF, per l’appunto). L’associazione animalista concede un bel “bollino” “rispettiamo gli animali” per la confezione del prodotto, e il gioco è fatto.
Gli fregasse un accidenti degli animali, gli animali conoscerebbero il benessere reale, non i risultati (irrilevanti) delle chiacchiere, raccontati ad arte per evidenti fini persuasivi.
L’importante quindi è il “bollino”, la dicitura “animal friendly”, la patacca di cui fregiarsi e con cui autoincensarsi agli occhi del mercato credulone. Poi se c’è anche il “Premio Benessere Animale“, meglio ancora: sarà un gioco da ragazzi vendere al consumatore medio, che ben assolve al suo compito primario di comprare (e non pensare) mettendoci tutta la fiducia possibile, poverino. Col poco tempo che ha, c’è da capirlo, lui si sentirà appagato anche solo scoprendo che i nuovi biscottini al latte del gigante industriale rispettano le “libertà animali” (che non prevedono né pascolo né erba). Un’occasione d’oro per il consumatore per sentirsi buono, intelligente ed eticamente corretto, attraverso un acquisto (apparentemente) giusto. Allo stesso modo in cui si è sentito un figo nello “scegliere” i prodotti senza olio di palma, si sentirà nel giusto dando peso e spazio a quel concetto di benessere animale di comodo.
Ora tutti al supermercato, a fare le “loro” scelte – Le manine dei più afferrano la nuova confezione che racconta del benessere animale (la favola, ndr), la depositano nel carrello e il gioco è fatto: la menzogna industriale ha trionfato. “Provar non nuoce”, penserà qualche raro consumatore scettico, acquistando non del tutto convinto; poi, abituarsi sarà quasi inevitabile. La confezione in casa, sulla tavola della colazione (ammesso che la si faccia ancora), racconterà ai nostri figli e a noi stessi del nostro animo gentile, della nostra attenzione per le sorti degli animali. Poi, se qualcuno vorrà tornare a esercitare il beneficio del dubbio, basterà dare un’occhiata ai vincitori del suddetto e ambìto premio, tra cui ci sono tutti quelli che non ti aspetti: da Amadori a Unilever, passando per McDonald’s. Le “grandi firme” ci son proprio tutte (un elenco più completo è qui, al 10° capoverso; leggere per credere!); di produttori etici, ovviamente, nemmeno l’ombra (troppo piccoli per essere considerati, ndr).
L’editoria incalza, con l’informazione che piace all’industria – Passando a quello che abbiamo definito “gran battage promozionale” (più che pubblicitario, redazionale, ndr), la rassegna stampa ci sforna ormai fiumi di articoli, settimana dopo settimana. Ve ne presentiamo qui una selezione minima – ma sostanziosa – commentata pezzo per pezzo:
Il Fatto Alimentare / Robot e App: come cambia la stalla – In artcoli come i seguenti tutto si dice tranne che la cosa più importante: ma cosa mangiano le “mucche”? Per produrre tanto, mangiano male, purtroppo. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Neanche Il Fatto Alimentare. Leggere per credere, cliccando qui.
Cercate forse una stalla “esemplare”? – Tranquilli, a presentarvene una arriva in vostro soccorso il Corriere della Sera. Vedete voi, magari vi convince, con 1.300 vacche; fornitrice di latte per Grana Padano e di carne per McDonald’s. Peccato però che l’autrice, Iolanda Barera, non sia una vera esperta di zootecnia. Ed è proprio tra i redattori non troppo competenti che gli editori possono trovare gli autori ideali per non sollevare troppi dubbi. I dubbi muovono il senso critico, e il senso critico del consumatore – secondo l’industria – è bene che continui a dormire. L’articolo è qui. Buona lettura!
Le belle favole di Coldiretti – Basta un robot e una App in stalla, e per l’azienda c’è il Premio Green (il concetto di “verde” che tanto bene evoca, anche se a sproposito) e tanti begli articoli di promozione, collezionati qui per voi. Gli editori sono sempre molto disponibili a raccontare storie del genere. Sempre narrazioni a metà. E ancora una volta ci chiediamo: vabbé, ma cosa mangiano le “mucche”? “E che ve ne importa a voi?”, sembra chiederci l’autore. E anche l’allevatore. Mica penserete che Heidi esista davvero e che le caprette facciano “Ciao!”, no? 😉
Ancora robot. Ovviamente un storia di successo – Qui si parla ancora di qualità del latte, ma – attenzione – una qualità che viene monitorata. Ovviamente di qualità merceologica si parla (grassi, proteine, carica batterica, cellule somatiche), ma perché ce lo dovrebbero spiegare? Per confonderci le idee? Scherzi a parte, chi cerchi qualità nutraceutica si rivolga altrove (a chi gli animali li conduce al pascolo), ma questo tanto non lo sa quasi nessuno, Avanti così.
Innovazione, chiave del successo (a modo loro) – Beh, certo, è l’innovazione a muovere gli ultimi investimenti degli allevatori superstiti (e a mantenere la loro schiavitù dall’industria). Tutto questo merita un altro Oscar Green. Vuoi mettere? Si sostengono le varie lobby di settore (l’alimentarista, il veterinario, l’industria del farmaco, etc.), si mantiene la subalternità del villico dall’industria e si va avanti. Avanti sinché dura. E i risultati per l’allevatore? Qualche cent in più al litro (l’elemosina), la razionalizzazione che fa rima con l’illusione, e il gioco è fatto. Chi si si creda protagonista, tra i moderni allevatori “di precisione”, si sentirà forse un gran figo a controllare la stalla dal pc, e a produrre un latte forse merceologicamente migliore (in quanto a grassi, proteine, cellule somatiche e carica batterica) rispetto a prima. Ma attenti: nuove e sempre più cocenti delusioni sono dietro l’angolo!
Avvertenze per i consumatori – Non cercate in quei latti nulla di realmente utile per il vostro organismo. Non cercate antiossidanti, grassi insaturi, betacarotene. Perché non li trovereste, visto che queste bestie sono nutrite ancora a insilato di mais e unifeed (o piatto unico). Quel che l’industria dispone, il villico fa. Basta dargli una nuova prospettiva verso cui guardare. E sperare. Come la dettero ai loro genitori 30 o 40 anni fa, proponendo razze e mangimi “spinti” per produrre anche il doppio. E poi? Poi le infertilità, le acidosi, le mastiti, le zoppie. E tanto latte in più rispetto alla richiesta. Tanto latte, pagato sempre meno.
12 giugno 2017