
È come se un malato di gotta se la prendesse con le sue scarpe perché i suoi piedi non riescono più ad entrarvi. Per la zootecnia intensiva è la stessa cosa: “i terreni sono insufficienti per spandere i reflui”: se lo vanno ripetendo da tempo allevatori, sindacati agricoli, enti locali, tant’è che pare abbiano finito per crederci. Come se il problema fosse non risalire alle cause del disastro ecologico prodotto (e capire quali passi indietro compiere) bensì quale altro disastro attuare di fronte ai sacrosanti limiti imposti dall’Ue con la “direttiva nitrati”.
Dei vari interventi registrati al recente convegno “Oltre la normativa nitrati”, tenutosi a Verolanuova, nel bresciano, vanno registrate le perle del consigliere regionale Monica Rizzi e del direttore provinciale di Coldiretti Mauro Donda, che in un consesso di generale atteggiamento assolutorio nei confronti dei veri responsabili (gli allevatori delle mega-stalle dove si alimenta a insilati), hanno saputo lanciare accuse persino ai legislatori comunitari, contestando l’univocità di regole che, secondo gli interessati, andrebbero applicate in maniera e in misura diversa a seconda della diversa natura ambientale (permeabilità e composizione dei suoli, profondità della falda acquifera, etc.). Come se il problema fosse discriminare tra chi sporca tanto e chi sporca tantissimo per via dell’ambiente in cui esercita la propria attività e non di mettere un freno, seppur tardivo, all’inquinamento della falda acquifera.
Il problema serio – e nessuno lo dice, tanto sono oramai lontani certi ambienti dalla realtà dei fatti – è che mentre la zootecnia estensiva aveva tra le sue risorse il concime prodotto con le deiezioni solide delle mucche, il modello di zootecnia intensivo ha trascurato il “come” puntando solo al “quanto”. Tanti animali, di genetica iperselezionata, stipati in capannoni ad alimentarsi prevalentemente di insilati (con tutti i guai che gli insilati comportano, dagli sporigeni alle aflatossine, che poi si ritrovano nel latte, e contro i quali i produttori di certi formaggi industriali sono costretti a utilizzare conservanti e antibiotici), con l’impossibilità di utilizzare le deiezioni solide (sterco) per produrre il buon vecchio letame di una volta. Così che dalla gestione del letame a quella dei reflui zootecnici il passo è stato breve, in questi mega-capannoni di centinaia e migliaia di mucche, in cui inevitabilmente i reflui liquidi (urine) si mischiamo ai solidi, e la presenza in essi di residui di un’alimentazione non più troppo “pulita” e di farmaci (antibiotici primi tra tutti per via delle sempre più diffuse mastiti) rendono inutilizzabile quella che una volta era una risorsa. E che da qualche decennio a questa parte ha assunto la dimensione prima di un problema e poi di un’emergenza ambientale. Come se tutto ciò non fosse stato prevedibile.
E quindi ora i tanti “soloni” sono a sentenziare argomenti difficili da accettare per chi, essendo vittima e non carnefice, si ritrovi ad abitare in quelle aree in cui questa zootecnia si è radicata e diffusa come un fatto ineluttabile. E la “soluzione” che più appare “vendibile” a questi signori è quella di piazzare dei mega-impianti a biomasse (che valgono investimenti di milioni di euro, e a qualcuno interesserà pure che girino soldi), spacciandoli per risolutivi, senza avere il coraggio di dire che essi non fanno altro che spostare il problema e restiturlo in parte alla terra e in parte all’aria.
Di fronte a tanto scempio è evidente che la “politica”, quella vera si possa e si debba fare quando si sceglie di cosa cibarsi, e che il primo atto politico di cui poter essere fieri è decidere di mangiare un po’ meno ma un po’ meglio, chiedendosi sempre “quale formaggio” sto per comprare? “quale zootecnia c’è dietro”?
A voler guardare quali formaggi siano a valle di una tale zootecnia non ci vuole poi molto, come neanche a pensare che quel prezzo allettante al supermercato ha una ragion d’essere. La responsabilità è di certo anche della Gdo, come va di moda pensare e dire di questi tempi, ma è il caso di iniziare ad affermare che molte colpe le ha anche il consumatore che, di fronte alla prospettiva di scegliere, preferisce quella di essere scelto. E, ancor peggio, senza riuscire, troppo spesso, ad averne neanche coscienza.
21 dicembre 2009