Il ministero, tra l’ipotesi Galan e gli strani attacchi a Slow Food

Giancarlo Galan – foto MiBACT©

Tira di già aria nuova al ministero dell’agricoltura. Anzi vecchia, vecchissima. A poche ore dalle elezioni regionali, che hanno sancito la prossima salita di Luca Zaia sulla poltrona di governatore del Veneto, si fanno più concrete le ipotesi che vedrebbero una svolta produttivista in campo agricolo e un deciso allontanamento dalle politiche di una terra (anche) degli agricoltori, su cui Zaia si era allineato in compagnia pressoché costante di Coldiretti.

Sfumata, con le elezioni, l’ipotesi di un passaggio di testimone Zaia-Cota (anche lui eletto governatore, in Regione Piemonte) e rimanendo in lizza gli altri leghisti Sebastiano Fogliato e Federico Bricolo, ad affacciarsi sulla scena è ora la “nuova” ipotesi veneta, con Giancarlo Galan (Pdl) che, lasciato il timone proprio della Regione Veneto, accetterebbe finalmente il ministero agricolo. C’è da sottolineare che lo stesso Galan, appena alcune settimane fa, di fronte a tale ipotesi reagì rifiutandola nettamente, forse secondo il retaggio per cui il Mipaaf sarebbe storicamente un ministero di secondo piano.

Cosa può aver fatto cambiare le idee in così poco tempo all’ex direttore di Publitalia e co-fondatore di Forza Italia?  Agli analisti politici andrà il compito di rispondere a questo interrogativo, qualora l’ipotesi-Galan prendesse forma. Di certo c’è da notare quanto tale prospettiva sia legata ad un cambio netto delle scelte in materia agricola, alimentare e forestale, essendo Galan tanto prossimo alla Confagricoltura quanto Zaia lo era stato alla Coldiretti. Con la prima delle due da tempo schierata con quanto di peggio il mondo agricolo (e zootecnico) tradizionale potrebbe attendersi: dall’apertura sfrenata agli Ogm al nucleare senza se e senza ma, passando per una più allegra gestione dei termovalorizzatori, degli inceneritori e delle cosiddette energie rinnovabili nell’ambito zootecnico.

Che in Italia ci sarà sempre meno spazio per un’agricoltura “umana”, o come qualcuno la chiama un po’ “retrò”, lo lascia intendere un interessante scritto di Antonio Pascale(1), che non ci meraviglia esca in questi giorni. Il titolo è eloquente – “Figli di un pensiero minore? Il sapere nostalgico” – e le tesi addotte hanno i toni del velleitarismo da ultima crociata, a partire dal sommario, che senza battere ciglio attacca con sarcasmo il “sano, giusto, pulito” e l’”ecosostenibile. Meglio, poi, se piccolo”.

“Siamo”, dice Pascale, “il paese dei prodotti tipici (e immutabili)”, manifestando la frenesia di un cambiamento (sì: anche nell’agricoltura su piccola scala, ndr) senza il quale non ci sarebbe futuro.

Le tesi addotte sembrano modellate più che a favore di qualcosa, contro il tanto di buono che Slow Food ha saputo realizzare in questi anni, salvando tante piccole produzioni di cui oggi ci sarebbe rimasto poco più che il ricordo.

Insiste poi Pascale, che “la sensazione dominante, almeno a leggere articoli d’autorevoli opinion maker che scrivono su giornali di sinistra, o che spesso sono ospiti di trasmissioni di sinistra, è che tutto ciò che è piccolo è bello”. E continua poi, con immutati scetticismo e ironia, asserendo che “tendiamo”… “a difendere il nostro prodotto tipico perché grazie a questo esprimiamo (o crediamo di esprimere) una cultura antica, che, pare, abbia senso, e ragione d’essere, proprio perché proviene da un lontano passato”.

“Il passato è tradizione”, prosegue Pascale, “abitudini consolidate e ripetute, metodicamente. Il passato è lingua, dialetto, e naturalmente il passato esclude il presente, cioè, in sintesi, respinge tutto quello che può contaminare la nostra idea di prodotto tipico (immigrati compresi)”. E poi via ancora a ruota libera, affiancando tesi leghiste e di Slow Food come consimili, e confondendo ad arte nella propria memoria gli scritti della Tamaro con quelli di Carlin Petrini, e le pagine delLa Stampa con quelle delLa Repubblica.

Pascale, le cui competenze in ambito agronomico e cerealicolo sono sconosciute ai più, teorizza una superiorità delle varietà che lui chiama “bastarde”, e in cui le cultivar antiche si dovrebbero trasformare con una modernità (industria, ricerca, iperproduttività, transgenico?) senza la quale a suo avviso non ci sarebbe futuro.

Bello sarebbe invece poter pensare ad un mondo ancora libero, in cui chi voglia fare il contadino come lo faceva il nonno, mutuando sì la vacca col trattore per arare, ma rifiutando di diventare schiavo della Monsanto, sia libero di farlo.

Il peggio, a nostro avviso, arriva però da due considerazioni a bocce ferme: il Signor Antonio Pascale lavora da vent’anni al ministero dell’agricoltura (quel ministero ormai prossimo alla svolta produttivista e migliorista, in nome di queste stesse teorie di progresso; e in vent’anni nulla si era saputo della sua competenza in ambito cibico) e questo suo scritto vetero-riformista non appare sulle pagine web né del quotidiano Libero né del Foglio, bensì dell’”illuminato” sinistrese Limes. Un abbaglio editoriale? Una svista? Per chi non creda ai suoi occhi basterà cliccare qui.

31 marzo 2010

(1) Antonio Pascale è autore dei volumi “Scienza e sentimento” (Einaudi, 2008), “Qui dobbiamo fare qualcosa. Si, ma cosa?” (Laterza, 2009), “Questo è il paese che non amo. Trent’anni nell’Italia senza stile” (Minimun Fax, 2010)