Il “fare quantità” ha fallito: è in crisi il modello industriale

Che differenza c’è tra il mondo caseario e gli altri settori naturalmente legati a quello agricolo? Tante, forse troppe, perché oltre a quelle naturali e più evidenti, ci sono le altre; quelle portate dagli uomini, dalle loro scelte, dal loro fare quotidiano, spesso radicato in anni e anni di attività, a volte opinabili .

Quella che più ci piace rimarcare, e che meno condividiamo, sta nell’incapacità di molti a fare qualità reale, lontani dalle quantità. Perché le quantità (peraltro plurali) sono in naturale opposizione alla qualità, che a nostro vedere è una e una sola: senza compromessi, senza scorciatoie e senza artifici di sorta.

I grandi vignaioli, quando hanno capito che per fare qualità bisognava – tra le altre cose – ridurre le rese, hanno iniziato a praticare la potatura verde. E gente come il grande Leonildo Pieropan, che operano in zone da sempre propense alle alte produzioni come la sua (il Soave), si è sentita dar del matto dietro le spalle (“Leonildo l’è andato fori de testa: butta le uve!”) prima di riuscire negli anni a segnare la nuova via verso la qualità reale.

Nel nostro settore, se escludiamo i piccoli produttori di poche decine di capi che usano il solo loro latte, che non hanno fatto la scelta delle razze cosiddette “migliorate” (termine introdotto da chi vende genetica spinta), e che non usano mangimi e fermenti, è stato tutta una rincorsa a produrre, produrre, produrre. Sino a oggi.

Oggi le cose cambiano, e cambiano non per scelta ma per necessità. E questo cambiamento, proclamato dei responsabili dei più grandi consorzi caseari Dop, a noi non piace. Dicono che “per uscire dalla crisi” (c’è meno richiesta, ndr) “bisogna ridurre le rese” (Stefano Berni, direttore del consorzio Grana Padano in un’assemblea nei giorni scorsi, a Mantova, ma lo hanno detto o fatto tante altre grandi Dop, dal Parmigiano-Reggiano al Pecorino Romano, ndr), e il peggio è che non ci saranno “riduzioni” delle produzioni “per capo”, ché non sono possibili. E non ci sarà né un ritorno alle origini (verso le razze autoctone, abbandonate alcuni decenni fa per quelle iperproduttive) se non marginale, né ad un’alimentazione meno spinta (ché in fin dei conti costa anche meno). Ci saranno solo delle “rottamazioni” in più (ebbene sì: la zootecnia intensiva, che sta dietro le maggiori “griffe” casearie, parla di rottamazione a fine carriera, come se quelli non fossero animali ma macchine) e stalle con qualche cuccetta libera rispetto a ieri. Manco a dire che rimarrà più spazio per le poche “sfigate” che resteranno. Quegli spazi desolatamente vuoti saranno lì a imperituro monito di chi li vorrà capire. Per noi sono, e saranno sempre – e non ci stancheremo mai di ricordarlo – il più concreto simbolo del fallimento del modello industriale (impatto ambientale e alimenti insalubri sono meno evidenti).

Ad ogni nostro lettore va una raccomandazione: Quando ti avvicini a un formaggio, anche quello che compri ormai per consuetudine da anni, chiediti sempre da quale tipo di zootecnia provenga. E che vita abbiano vissuto, o subìto, quegli animali.

Per chi voglia saperne di più:Quale zootecnia per quale formaggio(formato pdf; da Porthos, autunno 2006)

31 marzo 2010