La zootecnia intensiva ha fallito: chiude Pinzolo-Fiavè

Rotoballe fasciate, insilate - foto Michele Corti®Dopo anni e anni di errori, polemiche e rivendicazioni, il caseificio di Pinzolo-Fiavè chiude i battenti, lanciando sulla sua dirigenza e sugli amministratori pubblici trentini lunghe e pesanti ombre relative a una gestione del patrimonio lattiero-caseario locale disseminata di scelte impopolari e perdenti .

Basato su una zootecnia intensiva responsabile d’aver impiantato nel verde ed ecologico Trentino un sistema d’allevamento “padano” a impatto ambientale devastante (che importa in un ambiente fragile come quello montano alimenti prodotti altrove ed esporta tonnellate di formaggio, per tenersi infine pochissimo prodotto e l’enorme peso dei reflui), il gigante dell’industria casearia del nord-est esce indecorosamente di scena, per la classica goccia che fa traboccare il vaso: un clamoroso sequestro di sei quintali di mozzarelle “blu”, avvenuto all’inizio di questo mese, dopo il precedente analogo caso verificatosi nel luglio scorso.

Responsabile dell’”inconveniente”, a detta degli interessati, sarebbe l’impianto idrico del caseificio, infestato dal batterio pseudomonas, che ha resistito ai tentativi di bonifica effettuati dall’azienda nel mese di agosto.

Con la chiusura dell’azienda (rimarranno attive le produzioni di yogurt, Trentingrana “bio” e Spressa delle Giudicare), si delineano infausti presagi sul futuro del mondo allevatoriale trentino. La cronaca di Michele Corti, dal sito Ruralpini.it :

Al caseificio di Fiavé ai primi di agosto riprendeva la produzione delle mozzarelle. La linea di lavorazione era stata interrotta perché le mozzarelle diventavano blu rinnovare gli impianti “colpevoli” delle contaminazioni  erano stati fatti degli investimenti (coperti per 250mila euro dalle elargizioni della solita mamma Provincia). Ora  arriva l’annuncio-shock: chiusura dello storico caseificio. A farlo è lo stesso stesso Sergio Paoli, super direttore “unificato” del Polo Bianco. Mica illazioni o chiacchere da bar.

Qualcuno intanto si è chiesto se una decisione di una tale portata si sia potuta prendere nel giro di poche settimane e che senso abbia avuto rinnovare l’impianto della mozzarella se era già stata decisa la chiusura. Misteri trentini. Roberto Bombarda, consigliere dei Verdi in Provincia ha anche presentato un’interrogazione che, oltre alla preoccupazione per i post di lavoro, solleva anche la questione dei tanti soldi spesi per salvare delle strutture produttive che ora vengono semplicemente azzerate.

Una crisi che dura da anni

Da anni la vita del grande impianto di Fiavè era travagliata. Erano stati accumulati 50 milioni di debiti, non solo in relazione all’impianto produttivo principale (di Fiavè) ma anche alle operazioni delle “filiali”, prima tra tutte quella della produzione di yogurt di Villa Lagarina della ex Sav-Latte. Il fallimento del caseificio Fiavè-Pinzolo-Rovereto era allora stato evitato con iniezioni di capitali della Federazione cooperative (Coop Fidi) e della Provincia.

Alla “ristrutturazione finanziaria” era seguito il programma di fusione societaria con Latte Trento in nome della creazione del cosiddetto “Polo Bianco”; una fusione ormai “digerita”, che ha comportato per i soci di Fiavè l’accettazione di un prezzo del latte (38 centesimi di euro) inferiore di 2,5 centesimi rispetto a quello riconosciuto ai colleghi che conferiscono alla Latte Trento. Ma la fusione non prevedeva di certo la chiusura degli impianti.

In queste traversie, diversi soci anche importanti hanno abbandonato la nave che affondava conferendo il latte a privati (società venete) o mettendosi a caseificare in proprio. Un elemento che ha aggravato la crisi del caseificio.

Ora l’annuncio della chiusura  del grande impianto di Fiavè, conosciuto ben oltre i confini del Trentino e protagonista di una lunga storia che nasce con le latterie turnarie di fine ottocento (la sede della latteria, sorta nel 1892, era nella piazza del paese, dove ora sorge il municipio). Forse l’apice della sua parabola il caseificio di lo conobbe vent’anni fa, quando venne realizzata la sede attuale. Poi, con le fusioni e le trasformazioni della realtà dei mercati, è iniziata la fase del declino, contrastata senza grande lungimiranza da forti iniezioni di risorse pubbliche. Una politica che si spiega solo alla luce del forte intreccio tra politica e vertici del sistema cooperativo in un quadro di una rigida organizzazione del consenso (con un deficit di “democrazia di base” molto più drammatico che nelle regioni ‘ordinarie’ prive dei privilegi – a doppio taglio – dell’autonomia.

Un simbolo negativo

La chiusura del caseificio di Fiavé, ormai certa, non è però immediata. Prima verrà concentrata a Trento la produzione dello yogurt. Si tratta della produzione di quell’impianto di Villa Lagarina che ha contibuito al tracollo del complesso Fiavè-Pinzolo-Rovereto. Resterebbe in vita solo il caseificio di Pinzolo, specializzato in “nicchie” (Trentingrana “bio”, Spressa delle Giudicarie).

Per giustificare l’operazione (ma non era più onesto dichiararla subito, in sede di fusione?), la dirigenza – ormai unica – della Latte Trento parla della necessità di “economie di scala” e scopre che “costa meno trasportare il latte che tenere accese le caldaie”.

Forse è un’occasione per parecchi allevatori per passare alla trasformazione aziendale, o per ripartire dove si era cominciato un secolo fa: con i caseifici di “prossimità”: latterie di paese legate a un concetto di filera corta e di rapporto di fiducia con il consumatore. Allora sì che il consumatore trentino comprerebbe trentino come auspicato da una grande campagna pubblicitaria lanciata, con la solita  dovizia di mezzi, lo scorso anno.

Un’occasione per chiarire che se la corsa alla concentrazione non ha fine, e se ogni identità produttiva locale deve essere annullata, tanto vale creare un unico caseificio a Bolzano.

Con Fiavé crolla anche un simbolo negativo perché la presenza del grande impianto (sproporzionato rispetto alla localizzazione in una valle di montagna) aveva indotto la crescita di un sistema zootecnico abnorme e super-intensivo, a Fiavé e nei comuni limitrofi. Basta guardare le mappe satellitari Google per notare come almeno cinque stalle da latte intensive (con grandi “trincee” di insilati di mais) assedino da presso il centro del paese. Poi vi sono altre stallone a Lomaso e a Bleggio (comuni limitrofi). Erano stalle che non avevano superfici sufficienti per un utilizzo agronomicamente corretto delle enorme quantità di liquami prodotti. Ne soffrivano l’olfatto degli abitanti, ma anche i corpi d’acqua. Un corollario era (è) costituito dagli erbicidi spruzzati a ridosso dell’edilizia residenziale e della famosa torbiera delle palafitte (il Wwf, da noi interpellato in proposito, ha addotto cavilli burocratici relativi al tipo di area protetta per giustificare l’assenza di interventi). La chiusura del caseificio che aveva innescato questo “sviluppo perverso” indurrà qualche ripensamento negli allevatori? Crediamo di sì, anche perché la crisi del caseificio e l’“insulto” dei 2,5 centesimi di euro in meno rispetto ai soci di Latte Trento avevano indotto già diversi soci conferitori della zona a mettersi in proprio, bandire il silo-mais, puntare alla qualità e alle razze a duplice attitudine al posto delle Frisone spinte.

riduzione da Michele Corti, Ruralpini.it


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17 settembre 2010