Il gioco delle tre carte è quello che alcuni di voi avranno visto o intravisto giocare in certi capannelli di gente in luoghi affollati, come le stazioni, o le fiere di paese. Tre o quattro compari, attorno a un capo-baro che gioca carte, puntano soldi facendo finta di giocare e aspettando il pollo di turno. Che prima o poi arriva, abbocca e viene raggirato con destrezza. Ecco, fatte le debite proporzioni, a Terzo di Acqui Terme sta andando in scena una vicenda analoga, in cui però – particolare non trascurabile – i malcapitati sono i lavoratori del caseificio Merlo e i compari sono i vari attori di una scena che se non mettesse in gioco il futuro di trentacinque famiglie avrebbe solo del grottesco.
Tutto ebbe inizio nel 2004, quando Granarolo acquistò la Merlo dalla Yogolat per allargare il campo d’azione al formaggio, acquisendo anche Pettinicchio. Nel giro di pochi mesi la cooperativa emiliana decise di tenere la seconda e di cedere la Merlo che, nonostante un pesante aggravamento debitorio nei confronti dei propri lavoratori trovò qualcuno disposto ad acquisirla. Subentrarono così due figure estranee al settore, le sorelle Monica e Valentina Pagella, figlie di un tale Mario, un vero e proprio personaggio, con alle spalle un curriculum farcito di fallimenti e atti giudiziari. Un passaggio di mano che, a leggerlo oggi, dovrebbe lasciar intendere che ben poco di questa vicenda sia stato lasciato al caso.
Un passaggio di mano, quello dalla Granarolo alla famiglia Pagella, che nel corso del tempo ha rivelato chiari i risvolti: l’azienda chiusa e liquidata nell’estate scorsa e la Granarolo libera da ogni onere nei confronti dei propri ex dipendenti. Ed è così che, nell’agosto dello scorso anno i lavoratori, appoggiati dal sindaco di Acqui Danilo Rapetti, decisero di presidiare la loro fabbrica andando a vivere in tende di fortuna per reclamare il rispetto dei loro diritti e portare all’opinione pubblica un caso più che paradossale. Una vicenda che dimostra – in maniera eclatante – come la legge italiana consenta ad un’industria di acquistare per poi vendere, liberandosi dei debiti assunti e mettendo letteralmente sulla strada quelli che – seppur per pochi mesi – sono stati i suoi dipendenti.
Più si va avanti in questa vicenda e più si disvela una scena ricca di attori che recitano ognuno un a sua parte contro chi chiede semplicemente di essere pagato (i dipendenti sono attualmente in cassa integrazione ma non vengono pagati da mesi) e di poter riprendere a lavorare. L’ultimo atto ha visto, nei giorni scorsi, l’Inps locale dichiarare di non aver ricevuto i documenti per la cassa in deroga, che è scattata da gennaio, mentre la Regione Piemonte sostiene che la pratica è ferma in quanto mancherebbe una rettifica senza che si sappia chi dovrebbe farla né bene di cosa si tratti.
Il curatore fallimentare non si è mai fatto ancora vedere e parrebbe che stia operando un fallimento “a spezzatino”, con i computer prelevati nelle settimane scorse, mentre i macchinari per la produzione rimangono nel capannone e rappresentano l’ultimo scoglio a cui i naufraghi sono idealmente abbarbicati. Per difendere se non dei diritti attuali almeno la prospettiva di ripartire da quelli, magari nella forma giuridica di cooperativa. Mentre il presente è fatto ancora di rabbia e indignazione per i mancati pagamenti di una cassa in deroga, il futuro inizia a dare un po’ di angoscia.
25 marzo 2011