«La montagna senza pascoli e mucche sarebbe come Venezia senza le gondole e la tenuta del settore zootecnico è questione che va ben al di là del pur fondamentale Pil, posto che crediamo nell’importanza dell’identità dei territori quale bussola per non perdersi nei flutti della globalizzazione». È questo il concetto espresso sabato scorso dal presidente della Provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai nel corso della “Festa di primavera”, manifestazione della Federazione Provinciale Allevatori, appuntamento tradizionale che il comparto si dà per stilare un bilancio delle attività e un quadro del proprio stato di salute.
A chi gli chiedeva di tracciare un profilo del mondo allevatoriale e del periodo che questo sta attraversando, Dellai ha aggiunto che «gli allevatori rappresentano qualcosa in più di un semplice settore economico in quanto presidio culturale ed elemento caratterizzante con cui difendere le specificità di gente alpina».
Dellai si è poi complimentato per i risultati raggiunti (fatturati, produzioni e dimensioni delle aziende) sostenendo che si è di fronte ad una realtà – quella trentina – capace di reggere nonostante la sfavorevole congiuntura economica generale.
A stridere però con le sue affermazioni sono arrivati i dati con cui la stessa Federazione ha poi comunicato il quadro complessivo del settore nella Provincia per il 2011 e per l’intera zootecnia da reddito. La superficie riservata agli allevamenti rappresenta il 17,4% dell’intero territorio provinciale, con una popolazione di 90 mila capi, allevati in 4.301 aziende. I bovini da latte sono il tipo di allevamento più diffuso, con 36.789 capi; seguono 26mila ovini, 8mila caprini, 6mila suini e altrettanti bovini da carne.
I diciassette caseifici sociali lavorano 1,4 milioni di quintali di latte, di cui il 55-60% è utilizzato per produrre formaggi tipici, e il 5% appena di essi (73 mila quintali) è prodotto in malga. Un dato tanto negativo quanto comunicato con leggerezza e in contrasto con l’immagine che Dellai stesso vorrebbe veicolare del comparto.
La realtà delle cose è che negli ultimi venti anni e proprio per volere dell’amministrazione provinciale si è assistito ad una corsa a incentivare i piccoli a conferire a strutture tanto grandi quanto mai il Trentino aveva mai visto prima sul proprio territorio.
Dimensioni e organizzazioni produttive che inevitabilmente sono legate ad altri modelli che poco hanno a che fare con la natura e la fragilità del territorio, specie quello montano. L’esempio più eclatante degli errori compiuti in passato sta nel fallimento dell’esperienza del Caseificio di Pinzolo Fiavè su cui la Provincia autonoma di Trento aveva puntato fortemente negli anni ’90 e che attraverso diverse vicissitudini è scivolato in un forte ridimensionamento e nella chiusura di molte delle linee di produzione non prettamente legate alla tipicità casearia locale (mozzerelle, che di tipico avevano ben poco, etc.)
Infine un altro dato, anche quello eloquente: nel 2011 rispetto al 2010 le aziende di allevamento bovino sono passate da 724 a 705 (-19), con un incremento però dei capi allevati: attualmente 23.344 (+390 rispetto al 2010). Vale a dire che anche in Trentino si va affermando sempre più un modello zootecnico industriale, accompagnato al contempo dalla chiusura di non poche ma piccole aziende. Vogliamo non chiamarla globalizzazione?
28 aprile 2012