Una delle merci più rare di questo mondo pare sia la coerenza. “Tanto chi vuoi che se ne accorga?”, sembra sentirli dire, “tanto la gente è distratta”, e in pochi ricordano o notano la conseguenzialità delle affermazioni, delle scelte, della condotta operata, sia essa quella del singolo, di un’associazione o di un partito politico. Oh, sì, la politica deve aver insegnato molto a chi di “politica” vive, seppur indirettamente.
Stiamo pensando, e parlando, ancora una volta (ma è tutt’altro che una nostra ossessione, statene certi) dell’ultima uscita di CiWF (Compassion in World Farming), l’associazione che oltre a dispensare il “Premio Benessere Animale” ad industrie del calibro di Amadori, Barilla, McDonald’s e altre consimili, puntualmente sentenzia – e mai nello stesso modo – su come sia giusto allevare gli animali.
Chissà, se fosse vissuto ancora il suo fondatore, Peter Roberts (ex allevatore intensivo pentito, che denunciò le mostruosità della zootecnia intensiva, morto nel 2006), li avremmo sentiti parlare di tutto ciò in maniera più coerente, e credibile. E in modo più convincente rispetto a quanto abbiano fatto gli attuali responsabili dell’associazione, che un giorno ci raccontano di cinque libertà (leggi qui) su cui fondare il benessere animale delle specie lattifere, e dopo alcuni mesi ne scoprono una sesta (quella fondamentale per degli erbivori: la libertà di pascolare, leggi qui), utile per lanciare le proprie iniziative al fianco delle industrie. Dopodiché ci vengono a dire cosa sia bene fare – o non fare – nell’imteresse dei consumatori. In attesa, ovviamente, di conoscere i nomi di altre industrie, nuovamente o finalmente premiate, nel 2018.
Bene, anzi male, perché l’ultima sortita di CiWF, che ci spinge a parlare ancora di questa associazione, è il lancio di una campagna mediatica – e della relativa petizione – con cui si richiede qualcosa che probabilmente non si riuscirà mai ad ottenere, vale a dire l’indicazione in etichetta di “prodotto allevato da animali al pascolo”. O, per meglio dire, qualcosa che (e non vi sembri contraddittorio questo nostro dire, con il nostro fare, ndr) dobbiamo sperare non si avveri mai, già che le maglie della nostra legislazione son tanto larghe da farci passare poi, nelle norme, qualunque utilizzo o manipolazione in favore delle esigenze industriali. Mai di privilegiare quelle del consumatore. O del produttore virtuoso.
“Italia a Pascolo zero”: una mezza verità o un’affermazione di comodo?
La cosa che un po’ ci sorprende, nel leggere di questa petizione, è che “l’Italia è un Paese a pascolo zero”. Con questo titolo, non troppo veritiero né corretto, comprensibile (ma non condivisibile) se inteso come pensiero di osservatori francesi o britannici (loro di pascolo ne hanno molto più di noi, certamente, ndr), CiWF ha lanciato quest’ultima iniziativa (leggi qui, sul sito web di CiWF Italia) sostenendo che “quando pensiamo alla produzione di latte e formaggio, ci viene in mente l’immagine di vacche che pascolano liberamente nei prati, ma purtroppo la realtà, nel nostro paese, è molto diversa”. Un’affermazione che, è evidente, allude agli abusi che molte industrie hanno compiuto – e ancora compiono – nell’ambito pubblicitario, quando raccontano, con tanta – troppa – fantasia del loro prodotto (si pensi alle campagne pubblicitarie 2017 di Abit e Vallelata), ma che appare troppo generalistica, per una situazione che in realtà non è né omogenea né mai uguale a sé stessa.
E poi, ancora, che “la maggior parte dei due milioni di vacche da latte allevate in Italia attualmente passa tutta la propria breve vita al coperto facendo una sola cosa: produrre latte”. Che in effetti – occhio e croce – è ciò che capita a tutte le vacche che “lavorano” per le aziende sinora premiate da CiWF.
“L’allevamento intensivo”, prosegue il testo della campagna di CiWF Italia, ha sostituito il metodo naturale del pascolo con la pratica di tenere gli animali imprigionati in capannoni. Gli animali vengono nutriti con cereali (in Italia circa il 50% dei cereali coltivati è destinato agli animali)”.
“Come spiega Philip Lymbery, Ceo di CiWF”, argomenta l’associazione, “nel capitolo dedicato all’Italia del suo ultimo libro, Dead Zone, «l’allevamento e l’agricoltura intensivi in Italia non solo non rispettano il benessere animale ma hanno anche un impatto negativo sull’ambiente e sulla biodiversità. Inquinamento, alterazione degli ecosistemi naturali, monoculture che fanno largo uso di pesticidi: tutti fenomeni connessi che hanno come denominatore comune l’allevamento intensivo».
Per tutto ciò, ma soprattutto per molto altro ancora (per quel che dovrà ancora avvenire sul piano della disinformazione e della confuzione in cui lasciare i lettori), l’associazione rivendica qualcosa a nome dei consumatori (a quale titolo?), che “hanno il diritto di poter conoscere il metodo di allevamento da cui provengono i prodotti di origine animale. Per i prodotti lattiero-caseari, in Italia, non esiste nessun tipo di etichettatura, né obbligatoria né volontaria”.
La richiesta, indirizzata al ministro agricolo italiano viene espressa così da CiWF:“Chiediamo al Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina”, prosegue la nota di CiWF, “che sia introdotta al più presto un’etichettatura volontaria secondo il metodo di allevamento per questo tipo di prodotti”.
Infine, ed è l’afferazione che prelude l’invito a firmare, l’associazione si rivolge direttamente ai consumatori, col chiaro scopo di coinvolgerli: “un altro modo di allevare è possibile: un equilibrio naturale in cui il pascolo garantisce una buona qualità di vita agli animali, un prodotto alimentare di qualità migliore e contemporaneamente contribuisce a mantenere vivi gli ecosistemi, sostenendo la biodiversità”. La frase – che a noi sembra un po’ buttata lì, per come è stata scritta – prelude all’esortazione finale: “Entra in azione e firma ora”!
Purtroppo però, ed è questo che duole sul piano dei fatti concreti, non si registrano sinora né una parola detta da parte di CiWF in favore di chi davvero produce al pascolo (in Italia ce ne sono e hanno nomi e cognomi), né un’azione concreta in loro favore: che so? un “Premio Benessere Animale” riservato al mondo rurale, quello sì che andrebbe premiato. L’unico loro riconoscimento, quello che esiste da anni, è il Premio riservato alle industrie. Sul piano della coerenza davvero qualcosa non va, in casa CiWF. Peccato davvero!
6 novembre 2017
Per chi li volesse leggere, il testo e la petizione di CiWF di cui parliamo in questo articolo, sono raggiungibili cliccando qui