
Dalle nostre pagine ne abbiamo già parlato sin dai primi tempi dell’embargo della Russia per i formaggi europei: l’impossibilità di procurarsi prodotti caseari stranieri – in particolar modo quelli francesi, italiani ed inglesi – ha portato in giro per questi Paesi un’infinità di imprenditori e tecnici di quel Paese a caccia dei segreti produttivi di molte perle casearie. Un fenomeno che ha spinto e spinge alcuni dei nostri casari ad insegnare ai colleghi russi non tanto l’italico mestiere bensì a trasferire interi know-how produttivi.
È difficile sapere a quali prezzi certi personaggi vengano ingaggiati dai russi. Un po’ meno complesso risulta afferrare quanta poca etica ci sia nel mercanteggiare le proprie profonde conoscenze – spesso collettive, laddove il formaggio non sia un’esclusiva aziendale – per interesse personale. Il fenomeno, che – a quanto testimonia un recente articolo del settimanale Panorama – sembrerebbe non conoscere sosta, pare però non scuotere gli animi come ci piacerebbe che fosse.
È da fenomeni come questo che nascono i prodotti italian-sounding di cui si fa un gran parlare? Forse no, o meglio non solo: la prima fonte dei fake-italian-cheese è negli Stati Uniti (ma anche in Argentina, Canada, etc.) e ha origine dalle famiglie italiane emigrate all’inizio dello scorso secolo che, sapendo fare formaggio, iniziarono a farne anche nei Paesi che li accolsero. Mantenendo gli stessi nomi che quei loro prodotti avevano in Italia (da Caciocavallo ad Asiago, da Pecorino a Gorgonzola) e poi, nel tempo iniziando a modificarli, sempre però cercando di alludere alle loro origini (Parmesan, Combozola).
Ora, se una tale – e ormai ultradecennale – produzione viene contrastata dal nostro Paese con tutte le armi della diplomazia internazionale e con qualche risultato, perché si lascia che il fenomeno russo nasca e si compia, per di più alla luce del sole (e nelle scuole italiane, ndr) e che non vi si colgano i prevedibilissimi futuri problemi che ne potrebbero nascere? Cosa cambierà se dovessimo vedere altri cloni in circolazione, questa volta originati dalla Russia, invadere Paesi in cui al momento i prodotti italiani non hanno ancora fatto che un timido ingresso, e rubando ad essi miliardi di dollari di fatturato?
Una vetrina per Bra e Raschera
Ci appare assai curioso che il suddetto articolo di Panorama, intitolato “La Russia a caccia dei segreti dei formaggi Dop piemontesi” sottolinei che due Dop come Bra e Raschera siano particolarmente gradite al pubblico russo, e curioso è il compiacimento del presidente dei rispettivi consorzi di tutela, Franco Biraghi, che – intervistato dal settimanale – si limita a dichiarare questioni di secondo piano, utili a pensare che i due formaggi siano ben governati. Ma senza spendere una parola sui rischi che l’interesse dei russi porta con sé.
“Il mercato di tutti i prodotti caseari dop piemontesi”, sottolinea l’articolo di Panorama, “ha registrato, nel 2016, secondo la stima effettuata da Assopiemonte Dop, un fatturato di oltre 33 milioni di euro, di cui 14 milioni e 630 mila solo con il Raschera e il Bra dop”. Abbiamo la forte sensazione che se ne riparlerà tra qualche anno, quando la curva delle vendite inizierà a calare velocemente, e il fenomeno dell’italian sounding avrà una sua nuova roccaforte nel Paese attualmente governato da Putin.
20 novembre 2017