Dopo aver lanciato nelle scorse settimane la discutibile iniziativa denominata “Italia a Pascolo Zero” (visto che di pascolo l’Italia ne ha, ndr), i responsabili di CiWF, l’associazione che ogni anno conferisce alle industrie il premio “Benessere Animale”, hanno deciso di attaccare i due maggiori sistemi produttivi lattiero-caseari del nostro Paese – quello del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano – facendo palesare criticità e limiti che, a dispetto della rilevanza economica e dell’immagine costruita nel tempo da essi, sono legati alla produzione intensiva di latte.
Ma cos’è la zootecnia intensiva?
Una volta per tutte – e questa è davvero quella buona – è opportuno stilare una definizione di zootecnia intensiva, che altro non è a nostro avviso se non quella alla base di una produzione forzata oltre la natura dell’animale (che nella dimensione estensiva si nutrirebbe di erba e di fieno, ndr), allo scopo di massimizzare la resa produttiva. Chi desideri produrre più dei 18-20 litri al giorno da una vacca da latte può farlo solo forzando la fisiologia dell’animale, attraverso alimentazione e altre tecniche d’allevamento che inevitabilmente incideranno sì sulla resa ma anche sul benessere e sull’aspettativa di vita dello stesso, oltre che sulla qualità del prodotto (e di quest’ultimo aspetto CiWF pare dimenticarsi, ndr).
Poco convincenti le repliche dei consorzi
Detto questo, valutiamo qui le critiche che CiWF muove alle due principali Dop casearie italiane, enfatizzate dalla diffusione di un video che sta rimbalzando sulla stampa internazionale, e alla cui diffusione sono giunte repliche per nulla convincenti da parte dei due consorzi di tutela.
Dice Anna Maria Pisapia, direttrice di CiWF Italia, dalle pagine del suo blog sulla piattaforma del Fatto Quotidiano, che “nessuno degli allevamenti visitati allevava le vacche al pascolo” e che “oltre mezzo milione di vacche fanno parte della filiera dei due grandi formaggi. Tanti animali e per questo un potenziale di tanta sofferenza, se tenute a pascolo zero”.
“Nella nostra investigazione”, prosegue la Pisapia, “gli animali stavano come stanno le vacche negli allevamenti intensivi: con corpi ossuti si trascinavano a fatica nei corridoi delle stalle e nelle cuccette. I pavimenti delle stalle, di cemento, erano ricoperti di feci e urina; alcune vacche presentavano ferite alle zampe”.
Un colpo basso per l’immagine di Grana e Parmigiano nel mondo
Ma ciò che più conta, e che più preoccupa i vertici dei due consorzi e le aziende produttrici di questi due formaggi, è che la campagna lanciata da CiWF per “portare le vacche del Parmigiano e del Grana Padano al pascolo”, prosegue Pisapia, “lanciata in 7 Paesi europei, ha avuto una visibilità incredibile. In pochi giorni ha raggiunto 39 paesi, un pubblico di 200 milioni di persone, con decine di migliaia di cittadini che dicevano #notonmypasta e sottoscrivevano il nostro appello ai consorzi: dare alle loro vacche almeno cento giorni di pascolo all’anno”.
CiWF chiede l’impossibile
Sarà possibile dare cento giorni di pascolo agli erbivori ruminanti di Parmigiano Reggiano e Grana Padano, come pretenderebbe CiWF? La richiesta, oltre che strampalata risulta paradossale, superando ogni più ottimistica aspettativa. Un’idea che la direttrice di CiWF definisce “rivoluzionaria” ma che in sostanza non è praticabile che da una trascurabile parte degli allevatori di questi due sistemi produttivi (dove sono i pascoli?, ndr).
Come se ciò non bastasse, le repliche dei due consorzi alle accuse ricevute non fanno altro che acuire la gravità delle loro posizioni, in un (precario) equilibrio, tra argomentazioni fittizie (può esistere un benessere animale senza pascolo, e senza erba, per degli erbivori? Noi rispondiamo di “no”, non essendo garantita agli animali la loro naturale propensione al pascolamento, ndr) e argomenti elusi (entrambi i consorzi hanno evitato di parlare di pascolo, ndr), laddove la critica era stata tanto concreta quanto disarmante.
È la stessa Pisapia a tracciare una breve analisi delle due repliche ricevute: “Leggiamo, nelle note stampa di Parmigiano e Grana Padano, che hanno grande attenzione per il benessere animale, che le stalle visitate sono eccezioni, che le leggi sono rispettate nella loro filiera. Il Parmigiano ha anche precisato che i loro allevamenti non sono intensivi e che “non c’è una correlazione diretta tra pascolo e vita felice della bovina”.
È evidente quindi che le argomentazioni addotte dai due consorzi in difesa dei propri sistemi produttivi non stiano in piedi. Di quale benessere parlano? Non sanno che la vita media delle loro bovine è sempre più bassa? Che le ipofertilità, le zoppie, le mastiti sono all’ordine del giorno e derivano dall’alimentazione spinta e da un sistema che punta a fare numeri oltre ogni naturale limite delle bovine? Si sono dimenticati che l’alimentazione a base di insilati di mais e unifeed comporta problemi ruminali da cui derivano molte delle altre problematiche di cui la bovina da latte in regime intensivo ormai soffre da anni?
Ma il problema di fondo è che le “leggi sul benessere delle vacche non esistono”, incalza giustamente Pisapia. “La vacca da latte è purtroppo uno dei grandi esclusi dalla legislazione specie-specifica europea. Per loro valgono solo le disposizioni generali (troppo generali) della Dir. 98/58/CE sulla protezione degli animali negli allevamenti. Una normativa che di fatto non viene implementata correttamente negli Stati membri, perché se lo fosse (pensiamo all’articolo 3) gli allevamenti intensivi non esisterebbero”.
Parlano di vacche felici senza averne mai vista una?
Altra questione da sottolineare riguarda, nella replica del Consorzio di Tutela del Parmigiano Reggiano, il passaggio in cui si dice che “non vi è correlazione diretta tra pascolo e vita felice della bovina”. Affermazione assai audace e facile da controvertire, visto che nelle realtà estensive e in quelle riconvertite al pascolo le vacche hanno presto manifestato un netto miglioramento delle proprie condizioni fisiche, tanto da non avere (quasi) più necessità di cure veterinarie e farmaci, risolvendo naturalmente la gran parte delle problematiche che le affliggono nella zootecnia intensiva (acidosi, zoppie, mastiti, ipofertilità, etc.).
“Solo con il pascolo”, sottolinea Pisapia, “questi animali possono esprimere i loro comportamenti naturali. Ed è anche fondamentale per la loro salute. Dire poi che le vacche in Italia non possono essere tenute al pascolo per il caldo estivo non regge: il clima italiano può essere mite anche nei mesi più freddi e quindi il numero di mesi al pascolo può essere maggiore che in altri Paesi, aumentando così il benessere delle vacche” (un esempio su tutti, che conferma questa tesi è dato da Cascina Roseleto, che nel torinese ha raggiunto i 225 giorni di pascolamento nel 2016: un record che nell’anno in corso potrebbe essere battuto, ndr).
Conclusioni
Nel giudicare deludenti le repliche dei due consorzi, definendole però “prime reazioni”, la direttrice di CiWF lascia intravedere la propria fiducia (illusione?, ndr) in una risposta futura su cui poter costruire un cambiamento, sulla sola spinta di una forte risposta popolare che – auspica Pisapia – è attesa non solo dall’Italia ma dal mondo intero. Come se dei sistemi produttivi industriali potessero essere rivoluzionati a seguito di pressioni esterne e minime compromissioni dell’immagine, visto che queste campagne toccano solo una piccola fascia dei consumi, quella più sensibile alle tematiche animaliste.
Lasciamo infine spazio ad una nota stonata che si evidenzia tra le considerazioni mosse da Pisapia, a proposito del giudizio negativo espresso stavolta sul sistema di certificazione CReNBA (Centro di Referenza Nazionale per il Benessere Animale). Sistema di certificazione che sino a pochi mesi fa era adottato proprio da CiWF per sostenere il benessere animale vigente negli allevamenti, tant’è che l’associazione sostenne in due distinte campagne mediatiche i produttori che conferiscono latte a Fattorie Osella e Centrale del Latte di Torino (qui il nostro articolo sulla vicenda, ndr), che notoriamente non sono tenuti a far pascolare le proprie vacche. Una posizione ambigua oltre che contraddittoria, rispetto alla quale l’associazione dovrebbe al più presto – lo si spera vivamente – decidere di fare chiarezza, stabilendo da che parte finalmente stare: cento giorni almeno di pascolo obbligatorio per tutti, o solo per qualcuno?
4 dicembre 2017