“Venne, pascendo la sua greggia, e in collo / pondo non lieve di risecca selva, / che la cena cocéssegli, portando. / Davanti all’antro gittò il carco, e tale / levossene un romor, che sbigottiti /nel più interno di quel ci ritraemmo. / Ei dentro mise le feconde madri, / e gl’irchi a cielo aperto, ed i montoni / nella corte lasciò. Poscia una vasta / sollevò in alto ponderosa pietra, / che ventidue da quattro ruote e forti / carri di loco non avrìano smossa, / e l’ingresso accecò della spelonca. / Fatto, le agnelle, assiso, e le belanti / capre mugnea, tutto serbando il rito, / e a questa i nati mettea sotto e a quella. / Mezzo il candido latte insieme strinse, / e su i canestri d’intrecciato vinco / collocollo ammontato; e l’altro mezzo, / che dovea della cena esser bevanda, / il ricevero i pastorecci vasi” (Omero, “Odissea”, libro IX, vv.297-317; traduzione di Ippolito Pindemonte, pubblicata per la prima volta a Verona nel 1822).
È Ulisse, nascosto nell’antro insieme ai suoi compagni, a descriverci il pastore Polifemo preso dalle sue occupazioni di ogni giorno, alle quali attende con tanta cura e meticolosa attenzione da perdere, agli occhi del lettore, il suo aspetto minaccioso, e farsi quasi umano; questo perché nell’Odissea fiaba e realtà si mescolano di continuo, così che il mostruoso Ciclope può trasformarsi in uno dei tanti pastori che popolavano l’Ellade nel tempo, mitico e insieme storico, in cui si collocano gli eventi narrati nel poema.
Quale, dunque, il momento storico in cui si può inserire questo quadretto di vita quotidiana? Innanzi tutto è necessario distinguere il tempo della narrazione da quello della scrittura. Cominciamo dal secondo, più complesso da definire. Senza annoiare riprendendo la secolare discussione sulla “questione omerica” e senza pretesa di verità assoluta in un campo nel quale le certezze sono davvero poche, e per lo più relative, si può condividere quanto scrive G.S.Kirk : “Diciamo dunque che per Omero le date proponibili sono, all’estremo più antico il 1200 a.C., a quello più recente il 650 a.C.; ma elementi diversi s’accordano a suggerire un tempo più vicino alla fine che all’inizio – o anche alla metà – di questo vasto arco”. Insomma, si può azzardare l’VIII secolo a.C.! Lo storico greco Erodoto colloca Omero nell’850 a.C., ma la sua è solo un’ipotesi. Di certo il cantore cieco della tradizione conosce il ferro, tanto che chiama “ferreo” il cuore.
La guerra di Troia, alla quale è legato il lungo vagare di Ulisse, si può situare invece verso la fine dell’Età del Bronzo medio (XIII secolo a.C.) e gli studiosi ritengono che la città di Priamo sia da identificare con lo strato VIIa dei nove ritrovati presso la foce dello Scamandro, a Issarlik, in Turchia. Sito scavato anche da Heinrich Schliemann, convinto, con buona ragione, che lì fosse la città cantata nell’Iliade. La civiltà descritta nell’Odissea è quella micenea, destinata a essere spazzata via dall’invasione dei Dori. Un mondo in cui l’agricoltura è l’attività prevalente (tornato a Itaca, Ulisse va a trovare il vecchio padre Laerte e lo trova intento a concimare i peri dei suoi campi); in cui l’allevamento dei maiali è diffuso (tra i fidi che aiutano Ulisse contro i Proci c’è il porcaro Eumeo); in cui sovrani e sudditi sono vicini e una principessa come Nausicaa va a lavare le vesti insieme alle sue ancelle; in cui l’ospitalità è sacra. Pane e carne sono alimenti normali, si produce il formaggio, il vino si beve annacquato e le droghe non sono sconosciute (si veda l’episodio di Circe).
Tutto questo e tanto altro in un’opera che, come scrisse Heinrich Heine, è “il poema delle avventure e della nostalgia, antico e pur sempre nuovo; nelle sue pagine mormora il mare”.
Nadia Butini
G.S.Kirk, “La letteratura greca della Cambridge University. Da Omero alla commedia”, vol.I, collana I Meridiani, Mondadori, 2007
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