Indoeuropei provenienti dall’Europa centrorientale, giunti in Italia verso il 1400 a.C., i Latini erano un popolo di pastori. Come quelli di loro che si stabilirono sul Palatino, dove la piccola borgata originaria si trasformò, nel tempo, fino a diventare in età imperiale una autentica metropoli, brulicante di vita e di attività, rumorosa e affollata, nella quale uomini e merci di ogni genere affluivano da tutte le parti del vasto impero mediterraneo. Pastori, si diceva, come rivela il mito sulla fondazione dell’Urbe; il quale, infatti, da una parte ne nobilita le origini legandole ad ascendenze divine (Venere per Enea, progenitore della gens Julia; Marte per i gemelli fatali, Romolo e Remo), dall’altra assegna un ruolo di rilievo al pastore Faustolo, che raccolse e allevò, insieme con la moglie Acca Larenzia, i due piccoli fatti abbandonare dal perfido zio Amulio e fino ad allora nutriti da una lupa.
Perciò il cacio, specie quello ricavato da latte di pecora, era cibo quotidiano dei Romani, ricchi e poveri, fin dalle origini e poi sia in età repubblicana che imperiale, quando però le abitudini alimentari dei prima frugali Quiriti si complicarono e si arricchirono, lasciando al cacio un posto di secondo piano, almeno sulle mense dei più abbienti. Restò invece un alimento basilare per il resto della popolazione, come attesta il fatto che Diocleziano sentì il bisogno di inserirlo nel suo Editto sui prezzi – promulgato nel 301 d.C. per frenare l’allora devastante inflazione – tra i prodotti a prezzo calmierato; d’altra parte la dieta dei legionari prevedeva da sempre una razione giornaliera di formaggio.
I Romani preferivano il cacio fresco a quello stagionato, inoltre esso rientrava nella preparazione di vari piatti, nonché di alcune delle salse (per esempio lo ius candidum, usato anche per farcire sfoglie di pasta secca) con le quali amavano condire le loro pietanze e che, per ingredienti e modalità di preparazione, non incontrerebbero certamente i nostri gusti. Per convincersene basta dare uno sguardo al ricettario più noto, quello di Apicio, autore nell’età giulio-claudia del De re coquinaria.
Con i Romani le tecniche di produzione casearia si perfezionarono e soprattutto si indirizzarono, specie a partire dall’età imperiale, a una vera e propria produzione di massa, con le aziende di campagna che producevano non solo per il proprio consumo, ma anche per la commercializzazione. Furono i primi a utilizzare, anche se solo in parte, il latte vaccino e a sperimentare quello di bufala.
Chiudiamo questa prima parte della nostra storia del cacio dedicata a Roma con una ricetta di età repubblicana, rustica quanto il personaggio che ce l’ha tramandata nel suo De agri cultura. Quel Marco Porcio Catone, detto il censore, “ringhioso critico dai capelli rossi”, come scrive Ettore Paratore nella sua Storia della letteratura latina, che “perseguitò il lusso” e “ingaggiò battaglia contro l’aristocrazia dominante”, attirandosi addosso “una serie eccezionale di processi”. È la ricetta di una focaccia (libum). Scrive Catone: “Farai la focaccia in questo modo. Pesterai bene nel mortaio due libbre (una libra equivale a 327,45 grammi, ndr) di cacio; quando l’avrai ben tritato aggiungerai mescolandola allo stesso una libbra di farina di frumento o, se vorrai che sia più soffice, soltanto una mezza libra di farina; mescolerai bene con il formaggio; aggiungerai un uovo e mescolerai bene. Poi farai un pane; metterai sotto il pane delle foglie; cuocerai lentamente a fuoco caldo sotto un coperchio di terracotta”. Provate… e buon appetito!
Nadia Butini
Ettore Paratore, “Storia della letteratura latina”, Sansoni, 1967
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