Dopo il mito, dopo la storia, eccoci alla quotidianità, alimentare ma anche e soprattutto casearia, dei Romani. Cominciamo dai pasti, in almeno uno dei quali era presente il formaggio. Erano tre al giorno: la colazione della mattina (ientaculum); la refezione di mezzogiorno (prandium), un pasto rapido consumato senza neppure sedersi, magari utilizzando avanzi e in prevalenza cibi freddi; infine la cena (cena), il pasto principale e quindi più curato. In generale i Romani erano di gusti semplici e la loro alimentazione era frugale, anche perché gli spazi e il tempo che si potevano dedicare alla cucina erano limitati.
La frugalità delle origini si conservò a lungo e i gusti si complicarono solo più tardi, in età imperiale, toccando però solo le famiglie patrizie o le più ricche, che si sbizzarrivano in banchetti fantasiosi, oltre che ricchi di portate. Come attesta fra gli altri lo scrittore Petronio, che nell’episodio della “Cena di Trimalchione” (dal “Satyricon”) descrive un’oca ingrassata con contorno di pesci e di uccelli, tutta fatta con carne di maiale, accompagnata da uova di pavone farcite con beccafichi in salsa pepata e da cinghiale cotto ripieno di tordi vivi. Forse esagerando. Ma senza dubbio questo era, allora, il trend! I banchetti poi duravano ore e ore, dalle tre del pomeriggio fino a notte inoltrata, intervallati da recitazione di versi, da esibizioni musicali e coreutiche, oppure da giochi d’azzardo ed esercizi di acrobati; con persino, nei conviti più ricchi, regali di valore diverso assegnati per mezzo di lotterie.
Certo è che le salse avevano nella gastronomia dell’antica Roma una collocazione privilegiata. Soprattutto il “garum”, confezionato a partire da interiora e pezzetti di pesce ridotti in una poltiglia, lasciata poi al sole perché fermentasse e infine filtrata. Il grande uso che si faceva del garum, come di altre salse e di spezie, era probabilmente dovuto anche alla necessità di mascherare il sapore di alimenti non sempre perfettamente conservati. Sta di fatto che, garum e salse a parte, dagli antipasti (antipasto = “gustus”, “gustatio”), che erano numerosissimi e a base per lo più di uova – da qui l’espressione “ab ovo”, ovvero “dall’uovo” = “dall’inizio”, per intendersi – pane, verdure e formaggio, attraverso le varie portate della cena (“prima, secunda, tertia cena”), fino al dolce (“secunda mensa”), il cacio – di latte di pecora o di capra e prevalentemente fresco, era largamente presente sui tavoli dei triclini. Tra gli aperitivi più apprezzati c’era il cacio impastato con le erbe.
Una curiosità: si deve a Prisciano – un grammatico vissuto tra il V e il VI secolo d.C., autore di una grammatica latina che rappresenterà un costante riferimento e la massima autorità in materia per tutto il Medioevo e fino all’età moderna – la prima citazione del “caseus pecorinus”, ovvero “cacio fatto con latte di pecora”. Che era poi il più diffuso presso gli antichi Romani. Nella prossima puntata di questa breve storia del cacio, che sarà riservata pressoché esclusivamente agli appassionati di archeocucina, vi daremo alcune ricette, pescate tra le tante che sono arrivate fino a noi attraverso i testi dei più svariati autori latini, dall’età repubblicana a quella imperiale, da Catone ad Apicio. Tutte rigorosamente a base di cacio, in prevalenza di latte di pecora. E non è detto che non siano, alcune, più leggere della focaccia al formaggio – già proposta nella precedente puntata – di Marco Porcio Catone, detto il “censore”.
Nadia Butini
Ettore Paratore, “Storia della letteratura latina”, Sansoni, 1967
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