Apriamo la nostra pagina di archeogastronomia con la ricetta di un antipasto: le palline (globulos) dolci fritte al formaggio, versione arcaica delle nostre frittelle. Ecco cosa ci propone il rustico Marco Porcio Catone: “Mescolerai nella stessa quantità formaggio e farina di spelta(1), poi farai tante palline quante ne vorrai. Scalderai in un tegame di bronzo dell'olio (o del grasso). Cuocerai le palline una o due alla volta e le girerai spesso con due cucchiai di legno. Una volta cotte le toglierai, le cospargerai di miele, vi sbriciolerai sopra dei semi di papavero. Così le servirai”. Non male, si direbbe, magari sostituendo la spelta con il grano; s'intende che il cacio deve essere fresco. Leggendo la ricetta scopriamo così che l'abbinamento formaggio-miele non è di questi giorni: lo troviamo, infatti, anche presso i Greci, ai quali i Romani – dopo la conquista dell'Ellade – si richiamavano anche per le consuetudini alimentari.
Una ricetta gustosa, forse anche troppo per l'utilizzo di una quantità non modica di aglio, possiamo leggerla nel “Moretum” (“La focaccia” o “La torta”); un breve idillio che fa parte, con altri componimenti poetici, dell' “Appendix vergiliana”, di attribuzione in realtà incerta, nonostante la denominazione lasci pensare che sia opera del grande poeta latino. Nel poemetto si racconta di un contadino che si alza all'alba per confezionare, con l'aiuto di una schiava, una focaccia di farina, erbe, sale e acqua da cuocere sul focolare per poi abbinarla a un tortino di formaggio; tortino i cui ingredienti sono: quattro spicchi d'aglio, prezzemolo, ruta, coriandolo, sale e cacio. Il tutto veniva impastato fino a ottenere una palla, o una torta, morbida che veniva servita dopo essere stata tenuta al fresco. La si considerava un antipasto, ma per il contadino pseudo virgiliano probabilmente costituiva un pasto completo.
Sono molti altri gli scrittori latini che ci hanno lasciato testimonianze di arte culinaria, ma il campione della gastronomia dell'Urbe è certamente Marco Gavio Apicio, un po' l'Artusi dell'età classica. Sulla base delle testimonianze rimaste possiamo fissare la sua data di nascita intorno al 25 d.C. e affermare con qualche certezza che visse e operò sotto l'imperatore Tiberio. Ricchissimo, probabilmente gaudente o perlomeno amante dei piaceri della vita, è famoso non solo per il “De re coquinaria”, ma anche per le sue eccentricità gastronomiche, che ci sono state tramandate: lingue di usignoli, di pavoni e di fenicotteri (animali che, come i ghiri, i Romani mangiavano correntemente e di cui esistevano veri e propri allevamenti); piatti a base di talloni di cammello; triglie fatte morire nel garum; salse di creste tagliate a volatili vivi… e via discorrendo. Il ricettario apiciano è in realtà un'opera complessa, che deriva dalla rielaborazione e dall'aggiornamento continui – effettuati in un lungo spazio di tempo da chi la usava come testo di consultazione – di un corpus originario da attribuire al buongustaio del I secolo d.C.. La raccolta giunta fino a noi, suddivisa in ben dieci libri, risale infatti, per le caratteristiche linguistiche che presenta, al IV secolo d.C.. Da Apicio riprendiamo la ricetta dei “Sala cattabia” ( “Rifreddi” o piatti freddi), un antipasto al cacio che veniva preparato in questo modo: si impastava la mollica di pane – precedentemente bagnata con acqua e aceto – con pepe macinato, menta, semi di coriandolo, due spicchi d'aglio ben pestati e formaggio salato in quantità pari alla mollica di pane; infine, si amalgamava il tutto con poca acqua e con olio e si facevano delle palline da servire in tavola.
Nadia Butini
(1)Antica varietà di farro ancora esistente per quanto poco diffusa
Marco Apicio, “De re coquinaria”, Ed. Viennepierre, 2002
Marco Porcio Catone, “De agri cultura”, Famiglia Ventura Editore, 2012
“Appendix vergiliana”, a cura di M.G.Iodice, Oscar Mondadori, 2002
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