Oggi la grande industria casearia italiana non esiste più: dagli anni ’80 le aziende delle quali abbiamo raccontato in breve la storia sono state tutte acquisite da multinazionali straniere. Locatelli è diventata prima svizzera (Nestlé, 1961), poi francese, passando alla Besnier (1998), che poi trasformerà la propria attività nel nostro Paese in Lactalis Italia (2008).
Le acquisizioni di Besnier e Lactalis Italia si succederanno nei primi anni di questo secolo: nel 2003 la Invernizzi (dalla Kraft), nel 2005 la Cademartori e nel 2006 la Galbani (da Bc Partners che a sua volta l’aveva rilevata nel 2002 da Danone). La globalizzazione, che Henry Kissinger definì propriamente come “americanizzazione” dell’economia mondiale, ha fatto dell’industria alimentare italiana una facile preda.
La realtà casearia italiana, per fortuna, non era e non è caratterizzata dalla sola produzione industriale, anzi! Le tante diversità storiche, geografiche, culturali e sociali – che sono state per secoli la nostra benedizione e insieme la nostra fragilità – hanno generato una ricchezza preziosa proprio per le sue molteplici differenze che si sono tradotte, nel tempo, in consolidate e variegate tradizioni. A queste tradizioni, a queste differenze, a questa pressoché inesauribile ricchezza volle infine dare spazio una legislazione coerente, almeno nelle intenzioni, con la necessità di difenderle e tutelarle. Così nacquero le Do (Denominazioni di origine). Modello della legge 125 del 1954 era la normativa francese, operante fin dagli anni Venti del secolo scorso: il primo formaggio francese ad essere fregiato nel 1925 dalla Aoc (Appélation d’origine controlée) fu, tra i quattrocento e più che vanta l’Esagono, il Roquefort, l’erborinato più famoso al mondo insieme al nostro Gorgonzola e all’inglese Stilton.
L’Aoc non veniva concessa facilmente e prevedeva la definizione di disciplinari rigorosi e dettagliati, nei quali si rifletteva la molteplicità di tradizioni caratteristiche dei tanti territori nei quali si producevano, e ancora oggi si producono, formaggi dalla identità ben definita. Naturalmente i legislatori italiani si volsero, sia pure con trent’anni di ritardo, a un esempio che tanto si avvicinava alla nostra frammentata, e non adeguatamente valorizzata, realtà casearia. I primi formaggi di storica tradizione a ottenere la Do furono nel 1955 il Parmigiano-Reggiano, il Gorgonzola, la Fontina, il Grana Padano, il Pecorino Romano, il Pecorino Siciliano e il Fromadzo Valle d’Aosta.
Negli anni se ne aggiunsero molti altri. Nel 1996 la Do si trasformò in Dop (Denominazione di origine protetta), recependo il regolamento Cee 2081 del 1992 e ad oggi essa è estesa a trentun marchi. La Ue ha poi aggiunto altre certificazioni: le Igp (Indicazione geografica protetta) e le Stg (Specialità tradizionali garantite). Mentre per le Dop tutte e tre le fasi (produzione, trasformazione ed elaborazione) che danno come esito finale un alimento devono essere localizzate in un’area geografica delimitata, per le Igp è sufficiente che almeno una di esse avvenga nell’area interessata e per le Stg non è richiesto un legame specifico del prodotto agroalimentare a un territorio definito, perché esse si caratterizzano per il metodo di produzione tipico tradizionale.
È il caso, ad esempio, della mozzarella. Allora possiamo stare tranquilli, protetti dalle varie Dop, Igp e Stg? La cronaca ci dice no: in Italia come in Francia l’industria casearia non rinuncia all’idea di appropriarsi dei quarti di nobiltà che caratterizzano le Dop, di cui si conosce l’impatto simbolico e persuasivo sui consumatori. Così scoppiano casi come quello del Provolone Valpadana – che non è approdato alla grande ribalta mediatica – o quello sconvolgente, anche se legato a situazioni criminogene e non tanto a problematiche produttive, della Mozzarella di Bufala Campana; mentre in Francia ha suscitato scalpore qualche anno fa la ribellione dei fermier, che producono artigianalmente e secondo i dettami di un rigorosissimo disciplinare il Camembert Dop, a fronte dell’offensiva lanciata dall’industria casearia, che vorrebbe appropriarsi dell’agognata certificazione, pastorizzando. Una ribellione che fa ben sperare anche per le nostre buone “cause” casearie.
Qui finisce la nostra storia, intrecciandosi con la cronaca. Non a caso, nella speranza che la storia risulti, anche questa volta, “magistra vitae”.
Nadia Butini
Bibliografia
Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 1998
Arjun Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, trad. it., Meltemi, Roma, 2001
Naomi Klein, No Logo, Baldini e Castoldi, Milano 2001