In principio furono le capre… e le impervie, ruvide pendici dei Monti Zagros, cuore della Mezzaluna Fertile(*). In compagnia di queste frugali arrampicatrici, contente di pascoli magri e persino di macchie spinose, l’uomo iniziò l’avventura della pastorizia.
Avevamo lasciato il nostro pastore tra le alture iraniane, all’inizio della “rivoluzione neolitica” e adesso cercheremo di seguirne le tracce, in quegli spazi e in quei tempi che la ricerca storico-archeologica ha individuato come percorso nella diffusione del nuovo “stile di vita” agricolo-pastorale: l’ex cacciatore-raccoglitore. Con l’avvertenza che si tratta solo di cenni, utili a dare un’idea – sia pure sommaria – di quanto avvenne millenni fa; senza contare, inoltre, che in questo campo le scoperte di antichissimi siti e manufatti si susseguono tutt'oggi e poco è dato per scontato o per definitivo.
Dunque, dicevamo, la capra; ma anche la pecora, della cui domesticazione tante tracce sono state ritrovate in tutto il territorio della Mezzaluna Fertile, dall’Iran alla Palestina. Perché proprio queste specie? Perché proprio la pecora selvatica (Ovis orientalis) e la capra selvatica (Capra aegragus)? Perché solo quattordici delle 148 specie addomesticabili furono realmente utilizzate dall’uomo del Neolitico? Jared Diamond, in “Nature” (agosto 2002), non esita ad affermare che “nella maggior parte dei casi l’ostacolo è insito nella specie in sé” e in effetti la domesticazione richiede, affinché l’intervento dell’uomo sia efficace, la presenza di determinate caratteristiche, favorevoli alla cattività: scarsa aggressività, adattabilità al cibo, territorialità non troppo rigida, essere animali gregari e perciò sociali, con una forte organizzazione gerarchica del gruppo.
Chiarito questo punto, vediamo dove andarono a finire le nostre capre e le nostre pecore, partendo dalla Mezzaluna Fertile. Varie sono le ipotesi interpretative, tutte suggestive e non in conflitto tra loro, ma per lo più concorrenti a spiegare come e perché il nuovo modello agricolo-pastorale si diffuse in tutto il pianeta, sia pure in tempi e con modalità diverse. Si va dalla teoria dell’“onda di avanzamento” – che ipotizza una lenta e continua espansione di gruppi di agricoltori-pastori in insediamenti vicini a quelli di origine – a quella “diffusionista” (origine dell’espansione da un unico centro); non mancano, infine, gli studiosi che mettono in rilievo il contributo dato alla diffusione della rivoluzione neolitica dalle stesse comunità di cacciatori-raccoglitori, grazie a un “processo di acculturazione”.
Per quanto riguarda l’Europa non v’è dubbio, stando alle ricerche effettuate nei siti più importanti e più datati, che la rivoluzione neolitica arrivò dal Vicino Oriente: nel nostro continente non c’erano infatti, a eccezione della Grecia, capre selvatiche. La diffusione della capra domestica seguì un itinerario preciso, che portava dalle isole greche alla penisola balcanica; da qui, attraverso i Carpazi e l’Italia, all’arco alpino e infine all'Île de France, all’Europa centrale e alla penisola iberica. Nella penisola balcanica il neolitico si affermò tra la seconda metà del VI e il V millennio a.C., a partire dai suoi centri sud-orientali – quali la Grecia e la Bulgaria – seguendo le direttrici del Danubio e dei suoi ricchi affluenti, fino alla Pannonia (attuale Ungheria); sempre tra il VI e gli inizi del V millennio a.C. attraverso l’Europa centrale arrivò fino ai Paesi Bassi e al bacino di Parigi; infine, nel V millennio a.C. allevamento e agricoltura raggiunsero le isole britanniche e la Scandinavia.
Complessa e articolata, per la varietà delle culture e degli aspetti regionali che la caratterizzarono, la fase di neolitizzazione nel nostro Paese. Ma questa è un’altra storia, appunto.
Nadia Butini
(*)
espressione coniata negli anni Venti dall’archeologo statunitense James Henry Breasted (nella foto qui sopra)
F.Giusti, “La nascita dell’agricoltura” (“L’evoluzione umana”, II), Donzelli ed., Roma 1996
A.J.Ammerman, L.L. Cavalli Sforza, “La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa”, Bollati Boringhieri, 1986