7 gennaio 2009 – C’è un momento dell’anno, nella ciclicità dell’attività pastorale, che vede tornare i proprietari di pecore e di latte a dover subire un prezzo fatto dall’industria. Bene, anzi, male: i pastori che non trasformino in proprio il latte (alcuni non possono farlo per le restrizioni igieniche, che chiedono adeguamenti molto onerosi) sono costretti a sottostare allo strapotere di chi conosce solo le proprie ragioni e le proprie logiche consolidate: quelle di ridurre al minimo i costi per massimizzare il profitto.
E ancora una volta in Sardegna, ecco gli industriali piangersi addosso per la crisi finanziaria globale e locale, a causa della quale loro difficilmente potranno concedere quell’euro al litro che sembrava già pattuito da tempo, a fronte di una retribuzione che nel 2008 si era attestata sugli 80 centesimi di media.
Ancora una volta quindi, «il mondo dei soliti due o tre industriali caseari» dell’isola, denunciano i CoPaS (Coordinamento Pastori Sardi), «che impongono il prezzo, lancia messaggi terroristici», ma d’ora in avanti pare che dovrà vedersela con una «realtà cooperativa moderna, coesa e vincente», assicura il portavoce del coordinamento, Efisio Arbau.